Mustafa al-Trabelsi era un poeta di Derna, la città della Libia dove sono morte migliaia di persone dopo il passaggio della tempesta Daniel e il collasso di due dighe. Tra questi morti c'era anche lui. Era molto attivo nella comunità, aveva spesso denunciato il rischio posto da quelle dighe in caso di alluvione.

Ci aveva scritto anche una poesia, si intitola La pioggia, è girata molto nei giorni successivi alla catastrofe, questa è una mia libera traduzione dall'inglese, la lingua in cui l'ho letta. «La pioggia / mostra le strade allagate / gli ufficiali corrotti / e lo stato fallito / pulisce tutto / le ali degli uccelli / il pelo del gatti / Ricorda ai poveri / dei loro tetti fragili / e dei loro vestiti a pezzi / sveglia le valli / scuote la polvere sbadigliante / e le incrostazioni asciutte / la pioggia / un segno di bontà / una promessa di aiuto / un campanello d'allarme».

Questa settimana World Weather Attribution ha analizzato il collegamento tra il ciclone Daniel e il riscaldamento globale, che ha reso un evento di questo tipo cinquanta volte più probabile. Derna non era pronta, il mondo non è pronto, i tempi di ritorno si accorciano e questo è il numero 138 di Areale, buon sabato, cominciamo.

L'onda fossile (e la contro-onda delle piazze)

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Il premier del Regno Unito Rishi Sunak si è rimangiato gli impegni presi da tre governi del suo stesso partito, i conservatori, e ha annunciato che il phase-out delle auto a benzina e diesel viene posticipato dal 2030 al 2035 e che gli obblighi di efficientamento ed elettrificazione degli edifici vengono ammorbiditi.

La decisione arriva poche settimane dopo un altro annuncio, sulla concessione di nuove licenze di estrazione di petrolio e gas. Il Regno Unito è ancora una volta un laboratorio, il paese perfetto per osservare una dinamica futura, in questo caso la faglia sulle politiche climatiche che rischia presto di allargarsi anche oltre la Manica o l'oceano Atlantico.

Da un lato le politiche estremamente ambiziose del sindaco di Londra sull'allargamento della zona a basse emissioni a tutta la città voluta dal sindaco laburista Sadiq Khan, dall'altro un governo che sta facendo deragliare tutti gli impegni climatici (e la credibilità internazionale) del suo paese. In vista ci sono le elezioni del 2024, per le quali il Labour di Keir Starmer sembra favorito.

L'epicentro di questo conflitto è stato il seggio di Uxbridge, Londra: qui con 495 voti di vantaggio a fine luglio i conservatori sono riusciti a conservare il posto lasciato vacante proprio da Boris Johnson, il leader conservatore padrone di casa a COP26, che al net zero aveva agganciato la credibilità del paese. La campagna elettorale locale è stata tutta giocata sull'ecologia, la decarbonizzazione e la ZTL molto aggressiva di Khan.

È stato quasi un sondaggio, che le ragioni del clima hanno perso per un margine molto ridotto (in questo stesso seggio il vantaggio all'elezione precedente per i conservatori era stato di oltre 7mila voti). Sunak ha colto lo spirito di inquietudine e ha deciso che questa sarà la sua linea verso la campagna elettorale.

Tutte le prossime grandi elezioni nelle democrazie occidentali saranno giocate così. Il Labour ha già annunciato che, se vinceranno loro, riporteranno la scadenza del phase-out al 2030: il voto del prossimo anno rischia di essere praticamente un referendum su quando dismettere l'auto a benzina.

Sunak ha scelto con cura i tempi dell'annuncio, inviato da Downing Street al mondo proprio mentre a New York si teneva l'High Ambition Summit organizzato dalle Nazioni Unite per accelerare quello che il governo britannico ha scelto di rallentare. Ironicamente, il discorso di Sunak era intitolato: «Decisioni a lungo termine per un futuro più luminoso». E meno male.

«Saranno i consumatori a fare queste scelte e non i governi a forzarle», ha detto Sunak. La decisione è stata accolta malissimo dalla parte più attenta all'ambiente dei Tories, dalla società civile britannica, da Al Gore («Sono sotto shock») e anche dal settore industriale più coinvolto, quello dell'automotive, che aveva già fatto cospicui investimenti nella direzione dell'elettrico e si trova a giocare con regole cambiate di nuovo in corsa, per calcoli prevalentemente elettorali.

Lisa Brankin di Ford UK ha detto che questa svolta mina gli sforzi che i produttori stanno facendo. «Il nostro settore avrebbe bisogno di tre cose dal governo britannico: ambizione, impegno e coerenza. Questa scelta non ha nessuna di queste tre qualità». 

L'onda politica britannica si riverbererà sicuramente anche sui temi delle elezioni europee del prossimo anno, dove sono in ballo decisioni simili. Il riscaldamento delle case, con il passaggio alle pompe di calore, è già diventato un tema politicamente tossico in Germania, in Olanda c'è stata una rivolta sulle politiche per l'agricoltura.

Le elezioni negli Stati Uniti sono un'incognita per quanto riguarda i candidati ma sappiamo che i provvedimenti sul clima contenuti nell'Inflation Reduction Act saranno al centro e che nessun potenziale candidato repubblicano (per non parlare di Trump) ha idee particolarmente avanzate sull'ambiente o la transizione.

L'altro lato di questa storia è che mentre la politica è avvolta nei suoi tormenti e nella ricerca di rendite a buon mercato sulle sorti del pianeta, le piazze di tutto il mondo sono tornate a riempirsi, in una delle mobilitazioni per il clima più grandi da quando è finita la pandemia.

Il Global Fight to End Fossil Fuels concluso il 17 settembre è stato il primo evento di vero successo da almeno un anno, ha coinvolto centinaia di migliaia di persone in quattrocento città in tutto il mondo, l'evento cruciale è stato quello di New York, proprio perché al Palazzo di Vetro dell'Onu si riunivano capi di stato e di governo per capire come rilanciare l'azione sul clima.

Interessanti le parole scelte da Alexandria Ocasio-Cortez ai manifestanti a New York, «Dobbiamo essere troppo grandi e troppo radicali per poter essere ignorati» ha detto, una via di mezzo tra un invito e un auspicio, perché il vento politico sembra soffiare nella direzione opposta, e c'è più bisogno che mai di un movimento per il clima che sia in grado di far sentire la propria voce e articolare le proprie ragioni in modo che possa essere politicamente efficace e competitivo.

L'aria che respiriamo

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E poi c'è una crisi sanitaria da 400mila morti all'anno, che continuiamo a trattare come se fosse un rumore di fondo della politica: sono i morti da inquinamento in Europa. Un'analisi del Guardian fatta usando rilevazioni satellitari e 1400 monitoraggi sul campo ha scoperto qualcosa che i nostri polmoni conoscevano già: il 98 per cento degli europei respira aria tossica, che non rispetta le linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità. Due terzi vivono in aree dove si respira aria con una concentrazione di particelle nocive che è più del doppio delle linee guida Oms.

Il peggior paese dove respirare, in Europa, è la Macedonia del nord, dove due terzi degli abitanti respirano aria il quadruplo sopra i livelli consigliati per la salute umana, con picchi di sei volte più nella capitale, Skopje.

Il peggior punto dove respirare, in Europa occidentale, è la valle del Po, in Italia, quella mappa viola scuro - quasi nero sulle mappe del continente, dove un terzo delle persone respira aria quattro volte sopra i livelli accettabili per la salute.

Il parlamento europeo, questa settimana, ha votato l'adozione dei limiti posti dall'Oms come parametro di riferimento, ma soltanto a partire dal 2035, cinque anni dopo l'orizzonte consigliato dall'Oms, il 2030. Dodici anni da oggi in cui respirare particelle come il PM2.5, abbastanza piccole da passare fin dentro il nostro sangue e danneggiare e far ammalare i nostri organi interni.

San Francisco, Strasburgo, Amburgo

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Prima di salutarci, un giro per i tribunali di tutto il mondo, dove stanno succedendo o succederanno cose interessanti.

Partiamo dagli Stati Uniti: la California (che sarebbe la quinta economia del mondo, se fosse uno stato) ha intentato una causa civile a cinque aziende petrolifere, Exxon Mobil, Shell, BP, ConocoPhillips e Chevron, e alla loro organizzazione di settore, il famigerata American Petroleum Institute, in quella che è stata già definita come la più grande azione legale contro i combustibili fossili mai tentata negli Usa. L'accusa è di aver fatto miliardi di dollari di danni con estrazioni ed emissioni e di aver ingannato i cittadini. La richiesta è di un fondo di compensazione per i futuri danni da clima che toccheranno allo stato (che tra incendi e siccità ha già avuto la sua discreta quota di disastri).

«Queste persone avevano le informazioni e ci hanno mentito. Ci saremmo potuti risparmiare alcune tra le conseguenze peggiori della crisi climatica», ha detto il governatore della California Gavin Newsom.

«È una vergogna, ti fa sentire male dentro», parole forti, emotive, di uno dei leader politicamente più esposti sul clima (e verrebbe da dire: difficile non esserlo, vedendo in quali situazioni si è trovata la California negli ultimi anni).

Interessante la risposta del general counsel di American Petroleum Institute: «Questa campagna per portare avanti cause legali infondate e politicizzate contro un'industria americana e i suoi lavoratori non è altro che una distrazione da altre importanti conversazioni nazionali e un enorme spreco di soldi dei contribuenti. La policy sul clima la deve fare il Congresso, non il sistema giudiziario», ed è interessante perché poi quando le istituzioni legislative fanno quelle politiche, arriva qualcuno (come Sunak) a dire che devono scegliere i consumatori e non i parlamenti, ed è un loop da cui non si uscirebbe mai (e questi hanno tutto l'interesse a non uscirne).

Mercoledì 27 settembre, invece, la Corte europea dei diritti dell'uomo farà iniziare il giudizio a Strasburgo sulla più grande causa sul clima mai portata in tribunale, quella di sei ragazze e ragazzi portoghesi, che non hanno citato in tribunale solo il proprio paese ma 32 governi, per la lentezza nell'affrontare la crisi climatica.

Sarà una scena interessante: sei giovani contro ottanta avvocati a difendere 32 governi diversi, una Babele delle ragioni e delle paure per decidere su un solo punto: non affrontare la crisi climatica è una violazione dei loro diritti umani? Per dimensioni e conseguenze potrebbe essere davvero una cosa senza precedenti.

Alla Corte parleranno degli impatti sulla loro salute fisica, sulla loro salute mentale, sulle loro prospettive, di ondate di calore che costringono a stare chiusi dentro casa, di incendi, tempeste, malattie. E di ecoansia. Una sentenza favorevole (se ne parla nel 2024) potrebbe essere giuridicamente vincolante e portare a nuove azioni legali nei singoli paesi. È una cosa grossa.

Infine, Amburgo, Tribunale internazionale del diritto del mare. Qui nove paesi caraibici e dell'Oceania hanno chiesto un parere consultivo all'organo che ha giurisdizione sugli oceani grazie alla Convenzione sul diritto del mare del 1982 dell'Onu, ratificata da 168 nazioni per proteggere il futuro di questo immenso bene comune.

È la prima volta che viene interpellato questo tribunale in riferimento alle emissioni di gas serra. Di solito ad Amburgo si discute di diritti di pesca o minerari, di zone esclusive e di inquinamento.

La domanda sottoposta ad Amburgo è appunto: le emissioni e il conseguente riscaldamento degli oceani possono legittimamente essere considerati una forma di inquinamento? In questo caso l'effetto di una sentenza favorevole non sarebbe di per sé vincolante, ma costituirebbe un precedente per nuove azioni legali e richieste di danni future.

Per questa settimana è tutto, grazie per aver letto fin qui! Se il prossimo weekend sei a Firenze, insieme ad altre persone e organizzazioni parteciperò al festival Many Possible Cities dove parleremo, appunto, del futuro delle città, ma anche di attivismo e dei suoi margini di azione (e anche di vernice, che a Firenze è sempre qualcosa).

Passa a salutare! Questa edizione di Areale è stata fatta ascoltando, per qualche motivo, Art Pepper, questa settimana ho visto Io capitano di Matteo Garrone. In generale è tutto e va tutto bene, passa un buon weekend, se hai voglia di scrivermi, manda una mail a ferdinando.cotugno@gmail.com.

Per comunicare con Domani, invece, l'indirizzo è lettori@editorialedomani.it

Ferdinando Cotugno

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