Questa settimana parliamo di un circolo vizioso: proprio mentre la fusione del ghiaccio marino rende più accessibili le rotte artiche, le emissioni delle navi che vi transitano accelerano ulteriormente il riscaldamento. E poi, si può ancora parlare di “grande estinzione”?
Nel cuore dell’inverno artico del 2021, una scena senza precedenti ha sancito l’inizio di una nuova era per il commercio globale: una petroliera russa, la Christophe de Margerie, ha solcato le acque ghiacciate del Mare di Bering per attraccare in un remoto porto della Siberia orientale. Non era mai accaduto prima che una nave riuscisse a compiere una traversata simile durante i mesi più gelidi.
Ma stavolta il colpevole era chiaro: il riscaldamento globale. La nave, intitolata all’ex ceo della Total, è diventata il simbolo tangibile di un cambiamento epocale. Secondo numerosi studi, l’Artico si sta riscaldando a un ritmo quattro volte superiore rispetto alla media globale.
Un’accelerazione che sta aprendo nuove rotte commerciali, in particolare lungo la Rotta del Mare del Nord: una scorciatoia tra Asia ed Europa di oltre 9.000 chilometri. Se un tempo l’Artico era una barriera invalicabile per gran parte dell’anno, oggi la stagione della navigazione si allunga e il traffico marittimo cresce. Ma ogni progresso ha il suo prezzo.
Il circolo vizioso
Con l’aumento delle navi, aumentano anche l’inquinamento atmosferico, l’emissione di gas serra e il rischio di disastri ambientali. Il paradosso è inquietante: proprio mentre la fusione del ghiaccio marino rende più accessibili le rotte artiche, le emissioni delle navi che vi transitano accelerano ulteriormente il riscaldamento, provocando la fusione di altro ghiaccio.
Uno dei principali colpevoli è il “carbonio nero”, una particella prodotta dalla combustione incompleta di carburanti fossili, in particolare dal pesantissimo olio combustibile usato da molte navi. Il carbonio nero non solo inquina l’aria, ma ha un effetto devastante quando si deposita sulla superficie del ghiaccio, riducendone la capacità di riflettere i raggi solari e favorendo così un ulteriore riscaldamento. «Il nero sul bianco è un acceleratore del disastro», spiega la scienziata polare Sammie Buzzard, della Northumbria University. «Il ghiaccio assorbe più calore e si fonde più velocemente». Tra il 2015 e il 2019, l’uso di olio combustibile pesante nell’Artico è aumentato del 75 per cento. In Antartide, invece, è vietato da oltre un decennio.
Le statistiche raccontano una trasformazione rapida. Tra il 2013 e il 2023, la presenza di navi nell’Artico è cresciuta costantemente: pescherecci, navi cargo, crociere e portarinfuse (imbarcazioni progettate specificamente per il trasporto di carichi solidi sfusi non imballati, come il carbone, il grano, i minerali, ecc.) solcano queste acque in numero sempre maggiore. Solo tra il 2013 e il 2019, il traffico marittimo è aumentato del 25 per cento, mentre la distanza complessiva percorsa dalle imbarcazioni è più che raddoppiata (+111 per cento). Nel frattempo, la finestra di tempo in cui è possibile navigare in sicurezza in acque libere dai ghiacci è aumentata del 35 per cento tra il 1979 e il 2018. Entro il 2030, secondo le proiezioni climatiche, potrebbe diventare possibile attraversare rotte artiche senza scorte rompighiaccio nei mesi estivi. Ma il futuro non è tutto in discesa: lastre di ghiaccio pluriennale, staccandosi dalle calotte polari, possono bloccare alcuni tratti chiave del Passaggio a Nord-Ovest, rendendoli ancora più insidiosi e imprevedibili.
Un ecosistema in bilico
L’Artico non è solo una rotta commerciale: è un pilastro dell’equilibrio climatico globale. Il ghiaccio riflette l’energia solare, contribuisce a raffreddare il pianeta e regola gli scambi termici tra oceano e atmosfera. La sua scomparsa ha effetti che si riverberano ovunque, dalla circolazione oceanica alla temperatura globale. «Il ghiaccio marino agisce come un gigantesco congelatore planetario», afferma ancora Buzzard. E poi c’è la biodiversità. Gli orsi polari, diventati simbolo della crisi climatica, dipendono dai ghiacci per cacciare e sopravvivere. Più del 96 per cento del loro habitat critico si trova proprio su superfici gelate. Il traffico crescente rappresenta una minaccia anche per le balene e altri cetacei, disturbati dal rumore sottomarino delle navi, che interferisce con la loro capacità di comunicare, migrare e nutrirsi.
Nel luglio 2024 è entrato in vigore un primo divieto parziale sull’uso dell’olio combustibile pesante nell’Artico, ma diverse esenzioni permetteranno ad alcune navi di continuare a usarlo fino al 2029. L’Organizzazione marittima internazionale ha fissato l’obiettivo di ridurre le emissioni di almeno il 20 per cento entro cinque anni, ma per molti scienziati e attivisti non basta. «Le emissioni di “carbonio nero” dalle navi nell’Artico sono più che raddoppiate negli ultimi anni», ha dichiarato Sian Prior, consulente della Clean Arctic Alliance, un consorzio di 21 ong ambientaliste. «Stiamo correndo verso un punto di non ritorno». Per la comunità scientifica, il messaggio è chiaro: ogni vantaggio economico derivante dall’apertura delle rotte artiche deve essere compensato da norme ambientali rigorose. Perché il tempo a disposizione dell’Artico sta rapidamente scadendo.
Le “grandi” estinzioni?
La fine del Permiano, 252 milioni di anni fa, è stata a lungo considerata la più devastante estinzione di massa nella storia della Terra. Conosciuta come la “Grande Morìa”, si stima che abbia spazzato via fino al 90 per cento delle specie marine e il 70 per cento di quelle terrestri. Eppure, a inizio 2025, una scoperta in Cina ha rimesso tutto in discussione: nel sito di South Taodonggou, geologi e paleontologi hanno identificato un ecosistema sorprendentemente florido, sorto appena 75.000 anni dopo quella che si riteneva una catastrofe planetaria. Un battito di ciglia, in scala geologica.
Un caso isolato? Forse no. Secondo Hendrik Nowak, paleontologo dell’Università di Nottingham, le piante potrebbero non aver mai subito un’estinzione di massa alla fine del Permiano. Studi su pollini fossili indicano un’interruzione minima. «Per le piante», afferma Nowak, «non si può parlare nemmeno di estinzione di massa».
Un’affermazione che scuote le fondamenta della paleontologia. La sua non è una voce solitaria. Spencer Lucas, del New Mexico Museum of Natural History & Science, arriva a sostenere che nessuna delle estinzioni di massa abbia avuto un impatto significativo sulla vita terrestre. «Penso che si sopravviva meglio sulla terraferma che in mare durante un’estinzione», dice. Secondo lui, nemmeno i tetrapodi terrestri – animali a quattro zampe come rettili, anfibi e mammiferi – furono colpiti in modo rilevante.
Il concetto delle cinque grandi estinzioni di massa, o Big Five, è nato da uno studio del 1982 condotto dai paleontologi David Raup e Jack Sepkoski. Analizzando i reperti fossili marini, individuarono cinque momenti di crollo della biodiversità: 1) fine dell’Ordoviciano, circa 445 milioni di anni fa; 2) Tardo Devoniano, circa 372 milioni di anni fa; 3) fine del Permiano, circa 252 milioni di anni fa; 4) fine del Triassico, circa 201 milioni di anni fa; 5) fine del Cretaceo, circa 66 milioni di anni fa, quella che portò all’estinzione dei dinosauri non aviari. Proprio l’estinzione dei dinosauri è l’evento più noto al grande pubblico. Ma, secondo Lucas, non fu nemmeno una vera estinzione di massa terrestre, perché molte linee evolutive, come uccelli e mammiferi, sopravvissero e prosperarono. E gli altri gruppi? Anche qui le sorprese non mancano.
I sopravvissuti
Gli insetti, con milioni di specie, sembrano non aver mai subito un’estinzione di massa. Nel 2021, Sandra Schachat (Università delle Hawaii) e Conrad Labandeira (Smithsonian Institution) hanno esaminato i loro fossili e trovato tracce di profondi cambiamenti, ma nessuna crisi globale. La frammentarietà dei dati – intere lacune di 20 milioni di anni – rende difficile distinguere tra evoluzione graduale e collasso improvviso. Ma la loro straordinaria capacità di adattamento, grazie a riproduzione rapida e strategie come la diapausa, li rende formidabili sopravvissuti. Lo stesso vale per le piante. Secondo uno studio del 2013 di Borja Cascales-Miñana e Christopher Cleal, solo una delle cinque grandi estinzioni – quella del Permiano – ha coinvolto significativamente le piante vascolari. E anche quella è ora messa in discussione. Nowak ha osservato che, sebbene le foreste di Glossopteris scomparvero, molte altre piante – come le conifere – aumentarono la propria diversità. Secondo Cascales-Miñana, tuttavia, i dati usati da Nowak (soprattutto pollini e spore) possono dare una falsa impressione, perché un singolo albero può produrne miliardi. Tuttavia, il punto centrale rimane: le piante sembrano molto più resistenti delle creature marine.
Una definizione da rivedere?
Alla luce di queste ricerche, alcuni paleontologi iniziano a chiedersi: che cos’è davvero un’estinzione di massa? Se colpisce solo la vita marina, possiamo definirla tale? Lucas, per esempio, sostiene di no: «Se non muoiono le piante, come può crollare l’intera piramide ecologica sulla terraferma?».
Questa domanda diventa urgente in relazione alla cosiddetta sesta estinzione di massa, l’attuale crisi della biodiversità causata dalle attività umane. Secondo alcuni, stiamo vivendo una nuova ondata di estinzione globale. Ma non tutti sono d’accordo. Schachat e Labandeira avvertono: non basta il declino numerico di alcune popolazioni per parlare di estinzione di massa. Perché ciò accada, dovremmo vedere interi rami dell’albero evolutivo scomparire del tutto. E, per ora, questo non sta accadendo.
Forse, allora, le grandi estinzioni non sono mai state così “grandi“ sulla terraferma come pensavamo. O forse, più semplicemente, i nostri strumenti per leggere il passato sono ancora troppo rozzi per affermarlo con certezza.
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