Il problema della siccità in Italia è composto di due livelli. Il primo riguarda la disponibilità calante di acqua. Il secondo come tratteniamo e usiamo quell’acqua. Al momento c’è una domanda che aleggia sulle immagini del Po in secca: cosa succede quando in un territorio la siccità diventa strutturale, non più un episodio ma una condizione?

In Cile sono al tredicesimo anno consecutivo di siccità, quella in corso negli Stati Uniti occidentali, secondo uno studio uscito su Nature nel 2022, potrebbe durare fino al 2030. Insomma, si possono avere tante reazioni rispetto ai fiumi del nord in secca, tra queste non può esserci la sorpresa, negli ultimi vent’anni siamo già arrivati a cinque annate di siccità e il 2023 ha tutta l’aria di essere la sesta.

Il 2022 per l’Italia era solo l’ultimo invito ad attrezzarsi al suo principale problema da crisi climatica, un invito che al momento non è stato seguito, complici il cambio di governo e l’affollamento di priorità. Secondo i dati della Fondazione Cima le sporadiche nevicate di gennaio non hanno fatto aumentare gli stock di neve, inferiori del 45 per cento rispetto alle medie.

Poca neve d’inverno significa poca acqua in primavera e in estate, nel bacino del Po ormai è un terzo di quella che dovrebbe essere, il Trebbia è un torrente, il Lago di Garda è ai minimi, l’idrologia del centro-nord è una mappa della desolazione. Al momento, come a fine febbraio un anno fa, il piano è sperare che piova, e tanto. Ci sono state annate in cui pregare ha funzionato. L’anno scorso non è successo, ora servirebbero quasi cinquanta giorni di pioggia in pochi mesi per essere al sicuro.

Peggio del 2022

Come spiega Bernardo Gozzini del Cnr: «L’aumento delle temperature con i cambiamenti climatici ha un andamento lineare, mentre la disponibilità è un segnale più subdolo. Se guardiamo l’Italia nella sua interezza, la quantità di pioggia non è cambiata, ci sono variazioni tra regioni, oscillazioni, ma l’acqua continua a cadere, in modo più intenso e per periodi più brevi, magari in due giorni invece che in quattro mesi, e così finisce in mare».

Adattarsi al nuovo clima significa costruire le infrastrutture per trattenere precipitazioni più irregolari. Una domanda chiave sul futuro dell’Italia in siccità la pone Stefano Calderoni, presidente di Cia-Agricoltori Ferrara, territorio da dove viene il 70 per cento delle pere italiane e dove si sta irrigando da inizio febbraio: «Come è possibile che in Spagna riescono a trattenere il 30 per cento dell’acqua negli invasi e noi soltanto l’11? Se già riuscissimo a raggiungere quel livello potremmo affrontare la transizione che ci viene richiesta con più tranquillità».

La siccità in Italia è un problema innanzitutto degli agricoltori, che usano due terzi della risorsa, e ai quali oggi viene chiesto di cambiare colture e affidarsi all’agricoltura di precisione: «Ci dicono di passare dalla frutta al grano, senza considerare il contesto, l’indotto, per non parlare di tradizioni e reputazione».

Le aziende devono innanzitutto sopravvivere oggi, in questa siccità, come spiega Alessandro Rota di Coldiretti Lombardia, «qui il problema è arrivare a vedere il 2024». Nel 2022 ci sono stati 6 miliardi di danni e oltre 3600 imprese che hanno rinunciato a fare agricoltura in un paese senz’acqua.

«La situazione è peggio che nel 2022», spiega Lorenzo Bazzana, che di Coldiretti è responsabile economico, perché le riserve idriche e finanziarie per resistere sono state già intaccate. «L’anno scorso la siccità ci è costata 3mila ettari di riso, quest’anno potrebbero essere 8mila, e c’è una riduzione della semina degli ortaggi». Un piano inclinato.

Senza risposte

Cambiare l’approccio all’acqua è un’impresa lunga: più tardi parte, più a lungo l’agricoltura soffrirà, è una questione di futuro più che di consenso. Il processo per ora è partito solo dal basso, consorzio per consorzio.

Nel ferrarese si sono autofinanziati in un anno un sistema che preleva l’acqua dopo ogni irrigazione per rimetterla in circolo invece di disperderla. Come spiega Calderoni «è un progetto sperimentale, d’emergenza, alimentato ancora a gasolio, ma è scalabile, servirebbero dei fondi, l’Anbi (Associazione nazionale bonifiche irrigue) ha 4 miliardi di euro di progetti già immediatamente cantierabili, servono soldi, quelli stanziati dal Pnrr non bastano, bisogna passare dai proclami ai finanziamenti».

L’altro tema è quello del governo dell’acqua, perché scarsità vuol dire conflitto tra gli usi, in alcuni bacini sono partiti tavoli tra gli utilizzatori, in altri no, ma a questo problema serve una guida nazionale, perché le autorità di distretto, le uniche ad avere una visione dalla sorgente alla foce, hanno poteri limitatissimi e manca un mandato politico, le competenze sono frammentate, organizzate per silos e sparse tra i ministeri.

Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura, aveva promesso una cabina di regia. Per ora non si è vista. Come dice Francesco Bosello del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici, «non si sta ragionando ancora su vasta scala, siamo al livello delle azioni singole, dei progetti pilota, delle iniziative di amministratori locali illuminati lasciati da soli a fronteggiare l’emergenza, ma la siccità in Italia non ha ancora avuto una risposta di sistema».

Strategie che mancano

Legambiente ha proposto al governo otto interventi riassumibili in tre parole: «strategia idrica nazionale», un piano di sistema che vada al di là l’attesa della pioggia al nord. Comprende ricariche controllate delle falde, l’obbligo di recupero delle acque piovane, riuso delle acque reflue depurate e dell’acqua nei cicli industriali, oltre alla rete dei piccoli invasi e dei laghetti artificiali.

Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente, aggiunge un tassello importante: «Serve un cambio di paradigma, per un futuro di siccità dobbiamo imparare a ridurre il fabbisogno in modo trasversale ai settori, portando le pratiche dell’economia circolare dalla materia alla risorsa idrica».

Molte soluzioni sono sperimentate localmente, nessuna trasformata in sistema nazionale, perché dalla crisi idrica è il livello nazionale a essere assente. A luglio Meloni aveva accusato il governo Draghi di «gravi responsabilità» per l’emergenza idrica. Allo stesso tempo invocava la più improbabile, energivora e inefficace delle soluzioni, i dissalatori, idea sparita appena passati dall’opposizione a Chigi. 

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