Ci sono voluti oltre cinque anni di denunce e inchieste, ma finalmente un risultato è stato raggiunto. I supermercati non potranno più acquistare i prodotti alimentari con le aste al ribasso, schiacciando i prezzi all’origine e creando tensioni insostenibili lungo tutta la filiera del cibo. Il divieto è arrivato giovedì, con l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del decreto che recepisce la direttiva Ue sulle pratiche commerciali sleali nella filiera agroalimentare.

È un risultato importante che corona anni di sforzi per portare alla luce una pratica oscura ma devastante per tutto il sistema agricolo e del cibo. Già, perché dietro le offerte mirabolanti che troviamo tra gli scaffali della grande distribuzione e in particolare dei discount, si possono nascondere pratiche commerciali incredibilmente aggressive.

Non sempre ci chiediamo, come consumatori, chi stia pagando lo scotto di una promozione troppo spinta. Eppure è chiaro che qualcuno, nella lunga catena produttiva che termina al supermercato, è stato costretto a rinunciare a una fetta del suo guadagno.

Dopo tanto lavoro su questi temi abbiamo ormai chiaro che a rimetterci sono sempre gli ultimi anelli della filiera, cioè agricoltori e braccianti, soggetti con il minor potere contrattuale. La grande distribuzione organizzata (Gdo), invece, negozia da una posizione di forza, perché pochi grandi gruppi catalizzano il 75 per cento degli acquisti alimentari nazionali.

Giocando la parte del leone, spesso la Gdo si fa prendere la mano, spingendo i suoi fornitori a una concorrenza selvaggia per spuntare prezzi di acquisto irrisori. La più odiosa delle pratiche commerciali utili allo scopo è (era) quella delle aste al doppio ribasso. L’abbiamo scoperta e denunciata insieme a Stefano Liberti per la prima volta nel 2016, quando un produttore di passate di pomodoro ci ha raccontato la sua vicenda: la catena di discount convocava lui e altri fornitori chiedendo una prima offerta per un determinato stock di merce.

Vincere perdendo

Raccolte le proposte, utilizzava la più bassa come base d’asta in una roulette russa da giocare online in venti minuti, ribassando freneticamente contro concorrenti invisibili per assicurarsi la commessa. Risultato: dal prezzo “giusto” poteva essere decurtato, talvolta, un ulteriore 25 per cento.

Quando vinci una gara di queste, è come se avessi perso, ci dicevano in molti. Perché subito dopo dovevano ingaggiare una guerra dei prezzi con gli agricoltori per non andare in perdita. E gli agricoltori, a loro volta, avevano una sola strada per evitare di rimetterci: comprimere il costo del lavoro.

Per questo, quando parliamo di caporalato e sfruttamento del lavoro in agricoltura, quando leggiamo le cronache dalle baraccopoli e dai ghetti in cui tanti braccianti si trovano a sopravvivere, quando veniamo a sapere delle morti per fatica nei campi, dobbiamo sapere che le cause profonde a volte sono sotto i nostri occhi, scritte sullo scontrino della spesa.

Lo sforzo più grande che abbiamo fatto è stato cercare di far capire alle istituzioni questo legame, apparentemente invisibile, tra le condizioni di vita e lavoro nei campi e gli sconti da capogiro al supermercato. Abbiamo lavorato molto per far visualizzare alla politica il collegamento tra produzione e consumo, fra potere di mercato e sfruttamento del lavoro, fra narrazione del made in Italy e inferno delle baraccopoli.

Ma finalmente oggi possiamo dire che un passo avanti è stato fatto. Oggi che le aste al ribasso sono vietate per legge, come avevamo chiesto, diamo un segnale a tutta la filiera alimentare, diciamo a gran voce che il cibo ha un valore, non solo un prezzo. Ed è il valore della fatica fatta per coltivarlo, raccoglierlo e commercializzarlo, che non può essere svilito ma che va comunicato con chiarezza e trasparenza ai consumatori. Perché non è vero che nessuno è disposto a spendere qualche centesimo in più per un buon prodotto: questo è quel che l’ideologia del discount vuole farci credere. Ma siamo meglio di così, e questa legge lo dimostrerà.

© Riproduzione riservata