Il parallelo storico può sembrare audace, ma per dare un’idea dell’impatto che il cambiamento climatico ha sul nostro cibo potremmo guardare allo scorso 8 aprile come a un 8 settembre dell’agricoltura italiana. Le gelate che quel giorno hanno colpito i frutteti, infatti, hanno messo in ginocchio decine di migliaia di aziende. Tuttavia, se cercassimo nei reparti del fresco del nostro supermercato un segno dei numerosi eventi estremi che sferzano il territorio, resteremmo delusi. Una volta varcate le porte scorrevoli del punto vendita, non c’è più traccia della tempesta perfetta che bersaglia l’agricoltura italiana: la frutta che troviamo sui banchi è sempre tonda, lucida, senza imperfezioni.

Eppure gli effetti del cambiamento climatico – grandinate, piogge intense, gelate, siccità, ondate di caldo – stanno portando alla crescita di quella produzione che non rispecchia più i canoni estetici ideali: aumentano i frutti di forma e dimensione variabili, lievemente ammaccati dalla grandine o con la buccia meno omogenea.

Il supermercato però non li acquista. Tocca agli agricoltori provare a piazzarli all’industria di trasformazione che ne fa succhi e spremute, comprandola però a un prezzo molto più basso. Così basso che a volte il gioco non vale la candela e i prodotti restano sul campo a marcire. Come siamo arrivati a questo punto? Un tempo le nostre nonne solcavano i mercati rionali e assaggiavano un’albicocca, una pesca, una pera a ogni banco prima di fare i loro acquisti. Non badavano tanto all’estetica, quanto alla sostanza. Oggi la frutta imperfetta è scomparsa, per lasciare spazio a prodotti che sembrano fatti con lo stampino.

La storia di questo cambio epocale è contenuta nel rapporto Siamo alla frutta – perché un cibo bello non è sempre buono per l’ambiente e l’agricoltura, pubblicato dall’associazione Terra!. Dalle cinquanta pagine scritte da Fabio Ciconte e Stefano Liberti emerge con tutta la sua forza il dramma della frutticoltura italiana, schiacciata tra l’incudine del cambiamento climatico e il martello delle politiche di acquisto della grande distribuzione organizzata, che interpretano alla lettera norme europee sganciate dalla realtà, nascondendosi dietro l’alibi «è il consumatore che ce lo chiede».

I numeri del tracollo

Siamo alla frutta prende in esame quattro filiere importanti del comparto frutticolo: le pere, le arance, i kiwi e le mele. Quasi sempre, i dati raccolti descrivono una crisi strutturale. Ad esempio, la produzione di pere in Emilia-Romagna ha visto calare le superfici di seimila ettari negli ultimi 15 anni, mentre le famose arance di Sicilia si coltivano oggi su appena 82mila ettari rispetto ai 107mila di vent’anni fa. E poi c’è il kiwi, la cui produzione a livello nazionale ha registrato dal 2014 al 2019 un calo di quasi 100mila tonnellate, dovuto in gran parte a una malattia che sembra propagarsi – secondo alcuni studi – proprio per l’aumento delle temperature.

Il tutto mentre il 2021 è stato dichiarato dall’Assemblea generale dell’Onu l’anno internazionale della frutta e della verdura, con il duplice obiettivo di aumentare la consapevolezza dei consumatori sui benefici del consumo e “indirizzare la politica alla riduzione delle perdite e degli sprechi di questi prodotti”. Questo tentativo di sensibilizzare i consumatori da parte delle istituzioni internazionali, tuttavia, si scontra con una dura realtà, sebbene in Italia, nell’ultimo anno, il valore della produzione ortofrutticola abbia raggiunto la cifra considerevole di 11,4 miliardi di euro, il 23,2 per cento del totale della ricchezza generata dall’intero settore primario. Si tratta dunque di una produzione importante, che tuttavia è in forte difficoltà. Le variazioni del clima impattano infatti sullo sviluppo dei prodotti, rendendo più difficile la commercializzazione.

Come ha spiegato Federica Argentati, presidente del distretto produttivo agrumi di Sicilia, «quest’anno il prodotto di piccolo calibro ha raggiunto picchi del 50 per cento, mentre normalmente si attesta sul 25 per cento». La non operatività del canale Horeca (sigla del settore che comprende hotel, ristorazione e catering) a causa delle restrizioni dovute al Covid-19, ha dato un altro colpo ai produttori, che non hanno potuto beneficiare dello sbocco dei bar, più propensi ad acquistare arance piccole da spremuta. La chiusura delle scuole e delle mense, che acquisiscono espressamente prodotto di calibro minore per i bambini, ha rappresentato un ulteriore elemento di criticità. Il risultato è che le industrie di trasformazione – unico canale rimasto per la commercializzazione visto il “niet” della Gdo, la grande distribuzione organizzata – hanno fatto leva sulla legge della domanda e dell’offerta, pagando poco una materia disponibile in grandi quantità.

Anche i produttori di pere lamentano che “la grande distribuzione non prende i frutti più piccoli anche se sono buoni allo stesso modo”, scelta compiuta da una posizione di mercato dominante che causa l’erosione dei redditi della parte agricola, costretta a ribassare.

Regole assurde

La “selezione all’ingresso” sul mercato di frutta e verdura avviene in base al Regolamento Ue 543/2011. La nascita di questa normativa deriva dalla volontà di agevolare il commercio fra paesi Ue, fissando degli standard comunitari che soppiantassero quelli privati e volontari offrendo un riferimento a tutto il sistema agricolo. Fino al 2008, le norme coprivano 26 prodotti ortofrutticoli, stabilendo perfino la curvatura massima di cetrioli e carote. Dopo una riforma e con l’approvazione del regolamento del 2011, si applicano solo a mele, agrumi, kiwi, alcuni tipi di insalata, pesche, pere, fragole, peperoni, uva da tavola e pomodori. Tuttavia, questi prodotti raggiungono il 75 per cento del valore commerciale degli scambi europei di ortofrutta.

Se l’impianto generale del regolamento impone che i prodotti siano interi, sani, puliti, privi di parassiti, quello specifico arriva a stabilire addirittura la colorazione della buccia, il calibro (cioè il diametro del frutto) e l’omogeneità dell’imballaggio. In base alle caratteristiche estetiche e alle dimensioni, si definiscono le categorie merceologiche: “Extra” e “I” rappresentano la prima scelta, quella che troviamo più frequentemente al supermercato, mentre “II” è considerata seconda scelta. Facciamo un esempio. Le varietà rosse di mele di categoria “Extra” devono avere i tre quarti della superficie totale della colorazione adeguata. Quelle di “categoria I” la metà della superficie. In entrambe però la buccia deve essere praticamente perfetta e i difetti ridotti al minimo: si tollera massimo un centimetro quadrato sulla superficie totale, che non dev’essere decolorata. Lo stesso vale per il calibro, ovvero il diametro del frutto: viene stabilita una dimensione minima per ogni tipologia di frutta coperta dal regolamento. Per la mela il calibro minimo è di 6 centimetri, per le arance di 5,3.

In tutto ciò, la categoria II non definisce un prodotto di qualità inferiore, ma solo meno omogeneo in quanto a forma e dimensioni. Eppure, i prodotti “imperfetti” non trovano quasi mai spazio nei supermercati. Vengono venduti quindi sui mercati ritenuti più poveri, come i paesi dell’Est Europa, oppure svenduti alle industrie di trasformazione per farne succhi di frutta.

I supermercati preferiscono importare lo stesso prodotto da altri paesi se ha un’estetica più accattivante. Così, le scelte di mercato della Gdo determinano il futuro di migliaia di lavoratori e di un intero settore. Il rischio è che gli agricoltori, piuttosto che vendere a prezzi stracciati i prodotti imperfetti, decidano di lasciarli sul terreno o, nella peggiore delle ipotesi, di chiudere le aziende.

«Vogliono frutti perfetti, grandi, tutti uguali, come se fossero usciti dalla fabbrica. Ma la natura non è perfetta», dice Gianni Amidei, presidente della Oi pera, l’organizzazione interprofessionale che riunisce gli attori della filiera.

La bilancia sbilanciata

L’aumento delle importazioni sta provocando in alcuni settori uno squilibrio della bilancia commerciale, esponendo così i produttori locali alla concorrenza estera. È il caso delle arance, di cui negli ultimi anni sono aumentate sensibilmente le importazioni, con conseguente pressione di prezzo sul settore agrumicolo nazionale. Secondo Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare, «le importazioni sono cresciute a un ritmo medio annuo doppio rispetto a quello delle esportazioni – rispettivamente 5 e 2,7 per cento – e ciò ha determinato il peggioramento del saldo della bilancia commerciale che in termini di quantità è diventato strutturalmente negativo». In Italia, oggi quasi un’arancia su tre arriva da fuori. La concorrenza spagnola viene evocata da gran parte dei produttori, insieme a quella più marginale ma più controversa delle arance provenienti dall’emisfero australe. «Ho trovato a Catania arance provenienti dallo Zimbabwe – ha detto la presidente del distretto agrumi di Sicilia agli autori del rapporto Siamo alla frutta – Queste importazioni dallo spazio extracomunitario andrebbero vietate per proteggere le nostre produzioni».

Anche nella produzione di kiwi esiste il problema della scarsa capacità aggregativa del settore produttivo e della crescente competizione da parte di attori esteri. In particolare la produzione greca, che viene immessa sul mercato a prezzi più concorrenziali.

I kiwi greci vivono un vero e proprio boom: si registrano aumenti di superfici considerevoli e la produzione ha raggiunto le 285mila tonnellate nella campagna 2019-2020, non lontane dalle 370mila tonnellate italiane. Gli incrementi sono dell’ordine del 15-20 per cento l’anno: nel 2010 il paese produceva appena 89mila tonnellate di kiwi. Tre anni fa, la Grecia ha superato la Nuova Zelanda diventando il primo fornitore estero di questo frutto per l’Italia. Ma c’è una differenza: la concorrenza proveniente da altri paesi dell’emisfero sud, come Nuova Zelanda e Cile, è meno problematica, perché la produzione avviene in stagionalità inversa rispetto a quella nazionale. Quella ellenica invece si inserisce nella stessa finestra produttiva del kiwi italiano, con potenziali effetto dumping sui prezzi.

Non stare insieme

In un mercato dominato dalla grande distribuzione, che catalizza tre quarti dei nostri acquisti alimentari, è difficile per migliaia di produttori avere voce in capitolo sui prezzi e le forniture. L’atomizzazione del settore produttivo che caratterizza il nostro paese è quindi un vantaggio per le catene di supermercati.

Secondo Atos Bortolotto, presidente della cooperativa agricola PerArte che raduna produttori di pere nella provincia di Ferrara, «di fronte alla grande distribuzione organizzata, noi siamo la piccola produzione disorganizzata».

Al contrario del consorzio Melinda, che ha rafforzato il potere negoziale dei melicoltori trentini nei confronti dei supermercati, il consorzio Opera, che tiene insieme i pericoltori emiliani, non ha raggiunto la massa critica preventivata. Mentre i promotori puntavano a coinvolgere almeno il 50 per cento dei produttori, l’asticella si è fermata al 25 per cento, un numero insufficiente ad avere un peso reale nelle contrattazioni con la Gdo. Nonostante la forte tradizione cooperativistica della regione, Opera non ha raggiunto i risultati sperati anche a causa della differenza di dimensioni delle diverse realtà produttive e della loro varietà di obiettivi: molti infatti coltivano non solo pere, ma anche altri frutti, ragion per cui non trovano vantaggio nell’affidarsi a un consorzio per una sola delle proprie produzioni. La stessa incapacità aggregativa si riscontra nella filiera del kiwi nell’Agro Pontino, dove l’attribuzione del marchio Igp al kiwi di Latina non ha rappresentato un volano per la sua commercializzazione. La polverizzazione della produzione e l’estrema competizione tra produttori ha impedito il dispiegamento di un’efficace azione di marketing tesa a valorizzare il prodotto, che quindi oggi è poco conosciuto.

Oltre le buone pratiche

Il problema di trovare un mercato per la frutta “brutta ma buona” non è nato ieri. In tutto il mondo si trovano campagne di marketing, progetti sociali, applicazioni e start up antispreco che propongono soluzioni creative e innovative.

A volte si punta sulla redistribuzione a fasce di popolazione meno abbienti tramite canali alternativi alla Gdo, in altri casi gli stessi supermercati dedicano spazi appositi per l’ortofrutta “buffa”, ribassando il prezzo.

Tuttavia, il problema non solo resta irrisolto, ma con il cambiamento climatico è diventato strutturale. Una quota crescente delle produzioni ortofrutticole destinate al mercato del fresco non riesce più a rispettare gli standard che consentono l’accesso alle categorie predilette dai rivenditori, con ripercussioni drammatiche sulla vita degli agricoltori.

Con il rapporto Siamo alla frutta Terra! quindi sollecita un intervento politico-legislativo capace di superare questa rigida classificazione, che non ha nulla a che fare con la reale qualità dei prodotti.

Una proposta che arriva proprio nel momento in cui la Commissione europea ha deciso di operare una generale revisione delle norme di commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli. Potrebbe essere questa l’opportunità per mettere fine all’eccesso di regolamentazione che impedisce margini di manovra ai produttori, esposti alla crescente variabilità del clima.

Ma la politica nazionale potrebbe anche adoperarsi per incentivare i supermercati a vendere una quota maggiore di prodotti fuori calibro. Nulla vieta infatti di acquistare e rivendere prodotti meno identici fra loro ma uguali dal punto di vista del contenuto nutrizionale. La stessa grande distribuzione potrebbe cambiare le sue politiche di acquisto senza attendere l’intervento normativo e prendere un serio impegno per aiutare l’agricoltura in tempi di crisi climatica. Acquistando prodotti con lievi imperfezioni senza abbattere i prezzi, potrebbe tamponare la crisi economica del comparto e partecipare a una operazione culturale necessaria, per liberarci dall’idea che la natura produca solo frutti perfetti.

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