Buongiorno, buon sabato, probabilmente leggi questa edizione di Areale in una mattina o un pomeriggio di caldo ingiusto, ne parleremo, intanto: coraggio. Lo so. Partiamo subito, ma prima un piccolo bollettino di navigazione. La settimana prossima, a Torino, ci sarà un certo fermento politico: dal 25 al 29 luglio ci sono il Climate Social Camp e il Meeting europeo di Fridays for Future. Io e Domani seguiremo le giornate di lavori, idee, spunti, persone e punti di vista, e lo faremo soprattutto tramite Areale, che per la sua ultima settimana prima dell’estate e delle vacanze sarà più breve ma sarà anche giornaliera. E se sei a Torino, palesati, parliamoci.

Parchi di pace

Andiamo, per qualche riga, lontano dalla soffocante atmosfera italiana. Un confine, scriveva Ambrose Bierce, è una linea immaginaria, che separa i diritti immaginari degli uni dai diritti immaginari degli altri. Azione climatica ed ecologica significa anche rinegoziare l’idea di confine, perché il collasso dell’atmosfera non ne conosce.

Nemmeno la biodiversità ne conosce. Prendiamo il leopardo delle nevi, «la tigre delle alte montagne», uno degli animali più difficili da vedere al mondo. Vaga sulle cime dell’Himalaya in un ecosistema non spezzato, attraversa continuamente confini pericolosi per gli umani, tra paesi che scontano decenni di tensione, odio, accumulazione militare. Lo stesso fanno l’orso bruno dell’Himalaya o il panda rosso.

Ecco. Questi bio-confini mobili possono essere un modello di pace. In un certo senso, lo sono già. Ne aveva scritto per la prima volta un biologo indiano, Aishwarya Maheshwari, su Science: i parchi nazionali transfrontalieri sono progetti di pace da coltivare e incoraggiare per ragioni che vanno anche oltre il welfare di una o più specie.

Quello che Maheshwari propone è istituzionalizzare il parco della pace dell’Himalaya, è un’idea potente, usare la protezione del leopardo delle nevi esattamente come si prova a fare con il clima alle Cop: un progetto di cooperazione, in questo caso tra India, Cina, Pakistan, Afghanistan, Bhutan, Nepal. Una diplomazia della conservazione, per tenere canali aperti tra paesi che su altri fronti minacciano ritorsioni, escalation, che coltivano conflitti a bassa intensità che poi – come in Ucraina – ci mettono un attimo a deflagrare.

L’areale del leopardo delle nevi è già – in parte – un progetto di pace, scrive Mongabay. Il Khunjerab National Park sul Karakoram è amministrato in modo congiunto tra due dei paesi che si detestano e minacciano di più al mondo, India e Pakistan. Il Sacred Himalayan Landscape, sulla parte orientale della catena montuosa, attraversa India, Nepal, Cina e Bhutan. Altri ecosistemi non interrotti che potrebbero diventare parchi della pace: la regione dell’Everest tra Cina e Nepal, il Pamir tra Afghanistan, Pakistan, Tajikistan e Kyrgyzstan. La Cordilleras del Condor è un progetto di cooperazione già in atto tra due paesi che hanno avuto momenti tesissimi, come Ecuador e Perù, e si affida al dialogo e al lavoro congiunto di gruppi indigeni delle montagne. La zona demilitarizzata tra Corea del Sud e Corea del Nord è diventata una riserva naturale de-facto e un santuario della biodiversità, esattamente in mezzo a uno dei confini più pericolosi al mondo.

È un’idea con del potenziale, un’utopia con del gran senso pratico. Anche per invertire strumentalizzazioni della biodiversità, perché ovviamente succede pure questo. La propaganda militare di Armenia e Azerbaijan ha spesso arruolato da una parte o dall’altra il leopardo del Caucaso, uno degli ultimi grandi felini d’Europa, che da secoli attraversa un confine diventato sempre più teso. La guerra in Nagorno Karabakh ha scaricato decine di bombe al fosforo sui delicatissimi ecosistemi forestali della regione, è una specie di tentativo di ecocidio a bassa intensità, accusa rimbalzata da entrambe le parti in guerra. Armenia e Azerbaijan non faranno la pace per il leopardo del Caucaso, ma il leopardo del Caucaso potrebbe essere un utile esperimento di de-escalation.

Stanchezza, stress e temperature da bulbo umido

Fa, in effetti, piuttosto caldo. La cartina dell’Europa è stata questa settimana una geografia dei record, e non di quelli che ti fa piacere battere. Londra e Amburgo hanno superato i 40°C, ce n’erano 39°C in Bretagna e Normandia: chi le frequenta d’estate sa che la normalità sarebbero quasi venti gradi in meno. Edimburgo e Stoccolma hanno sforato i 30°C, in Italia viviamo una situazione che Giulio Betti, climatologo del Cnr, mi ha descritto come «fuori da ogni logica statistica», praticamente dalla metà di maggio.

Partiamo da un fatto: avere molto freddo e avere molto caldo sono due sensazioni orribili, due condizioni pericolose per la salute, e un indice di disuguaglianza molto chiaro. Reddito, genere, classe, provenienza, colore della pelle sono una barriera di protezione contro gli estremi delle temperature, per chi si trova dal lato privilegiato della storia. Poi però da qui il destino del caldo e del freddo si separano. Da un punto di vista politico il freddo viene preso molto più sul serio del caldo. Il freddo è un problema nazionale, sono mesi che ci prepariamo al freddo dell’inverno, che quest’anno rischia di essere preoccupante, a seconda di come andrà con le forniture di gas. Il caldo invece rimane un guaio individuale, sul quale la politica e le istituzioni ritengono di non avere giurisdizione. L’Italia prova a proteggerti dal freddo, per il caldo veditela da solo.

I giorni sono caldi, le notti sono peggio. Una notte tropicale è una notte in cui il termometro non scende mai sotto i 20°C, di solito prima dell’alba. (A Milano, ieri, c’erano 30°C alle 23, per dire). In Italia, secondo gli indici Istat sui capoluoghi di regione, le notti tropicali dell’ultimo decennio sono state in media 56. Praticamente due mesi in cui non si scende sotto i 20°C. Le città a cui è andata peggio sono: Napoli, Milano, Catanzaro e Palermo.

Il Radcliffe Observatory di Oxford è la più antica stazione di osservazione meteo del Regno Unito, una delle più longeve al mondo, raccoglie dati dal 1814. Come sono questi dati? Prima del 1920, la notte più calda che si fosse mai registrata a Oxford era 16.6°C. La media (non la più calda, la media) delle estati nell’ultimo decennio è stata 18.8°C. Nel Regno Unito le notti calde sono quelle sopra i 15°C. Negli anni Settanta erano dieci all’anno. Ora sono venti all’anno. Oxford ha avuto solo dieci notti tropicali nella sua storia: la metà negli ultimi 25 anni.

A Londra con l’ondata di caldo estremo sono arrivati gli incendi. Il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha detto che martedì è stata la giornata più intensa dalla Seconda guerra mondiale per i vigili del fuoco della capitale. Alla BBC: «Tutto questo ci mostra le conseguenze su questa città di temperature di più di 40°C». Come ha spiegato al New York Times Philipp Rode, direttore della London School of Economics, «il sistema di infrastrutture, ferrovie, energia, il modo in cui sono progettate scuole e ospedali, è pensato per temperature che stanno tra i -10°C e i 35°C. Abbiamo visto come si collassa quando si supera questa forchetta».

È un problema che avranno tante città del nord Europa. Le case sono costruite per trattenere il caldo, non per disperderlo, e sono ventilate male. Londra ha un piano regolatore che integra i rischi climatici futuri ed è già una scelta ragionevole, un passo avanti, adattamento. Al presente, la metropolitana spesso non ha l’aria condizionata e molti tunnel pochissima ventilazione. Non deve essere stato facile, nella giornata dei 40°C.  Conseguenze sistemiche: in Spagna due persone sono morte di caldo, letteralmente, mentre stavano lavorando a temperature non adatte all’attività umana. La conta totale delle vittime accertate (e sono vittime difficili da vedere per le statistiche) tra Spagna e Portogallo è 1.100.

Ma non ogni storia è tragica. Politico fa una rassegna interessante di come le città europee si stanno preparando a essere sempre più calde. Vienna, per esempio, ha un piano di mitigazione delle temperature più che ventennale, dal 2018 è stata una delle prime città europee a costruire una strategia per combattere il calore urbano: sussidi pubblici alla vegetazione sui tetti, investimento in infrastrutture come diffusori di brina che si attivano automaticamente quando fa troppo caldo, la riforestazione di cui si parla anche per tante città italiane. E poi ha una rete di piscine pubbliche che risale agli anni Venti, sempre a disposizione dei cittadini, da usare in modo simile alle ilots de fraîcheur, le isole del fresco di Parigi, localizzabili tramite un’app e a non più di sette minuti di distanza da ogni parigino. Madrid sta costruendo una cintura periurbana di verde da 75 chilometri, che ha già rinfrescato la città di un paio di gradi. Durante l’ultima ondata di calore ha aperto diversi rifugi climatici contro il caldo per le persone che non avevano modo di difendersi in altri modi. Si può fare.

Qualcosa si muove sul fondale

A Kingston, in Giamaica, nelle prossime settimane verrà presa una decisione della quale si parla ancora troppo poco a livello globale: permettere o no l’esplorazione mineraria degli abissi dell’oceano? È una partita dalle conseguenze imprevedibili, che può aprire nuovi orizzonti di collasso e che paradossalmente è spinta proprio dalla fame di metalli critici della transizione energetica. Ragioni ecologiche contro altre ragioni ecologiche: una fotografia della complessità del mondo che verrà.

L’elettrificazione del mondo ha bisogno di nickel, cobalto, manganese, i ritmi globali di estrazione non stanno tenendo il passo della domanda e i prezzi sono altissimi, per i problemi delle catene di distribuzione, la concentrazione delle risorse (due terzi del cobalto sono in Repubblica Democratica del Congo), le tensioni geopolitiche. A Kingston ha sede un organismo poco noto, la International Seabed Authority, organizzazione affiliata all’Onu che ha il mandato istituzionale di prendere una decisione.

Nel mondo sta crescendo il fronte dei paesi che chiedono una moratoria ispirata alla prudenza: sappiamo ancora troppo poco sulle dinamiche dei fondali (dove i due terzi delle specie viventi ci sono sconosciuti, praticamente conosciamo meglio la superficie della Luna che il fondo dell’oceano) per dare il via a uno sviluppo industriale su larga scala.

Il primo a parlarne apertamente è stato il presidente francese Emmanuel Macron, in questa fase il leader globale nella diplomazia marittima. Alla conferenza Onu sugli oceani di giugno a Lisbona, Macron aveva detto: «Dobbiamo creare una cornice legale sull’estrazione mineraria di profondità e non permettere attività che possano mettere in pericolo gli ecosistemi». Da allora altri paesi hanno preso posizione e il fronte dei contrari si sta allargando: Cile, Fiji, Palau, Micronesia. Alcuni sembrano paesi piccoli e irrilevanti, ma la Micronesia ha la quattordicesima zona economica esclusiva oceanica al mondo, sono solo 105mila persone, ma controllano 2,6 milioni di chilometri quadrati di oceano Pacifico.

Gli interessi industriali in ballo sono altissimi. Da questo punto di vista è importante la presa di posizione di grandi aziende nel settore automotive, una delle filiere produttive più coinvolte dalla ricerca di metalli critici. BMW, Renault, Volkswagen e Volvo si sono impegnate a non usare materiali provenienti da estrazioni oceaniche per le batterie dei veicoli elettrici. Anche una lettera di oltre 600 scienziati ha chiesto all’International Seabed Authority di bloccare ogni concessione.

Al momento la situazione è questa: l’autorità con sede a Kingston finora ha potuto concedere soltanto licenze esplorative alle grandi industrie minerarie. Queste licenze riguardano soprattutto un’immensa area di fondale chiamata Clarion-Clipperton Zone, nel Pacifico orientale. Qui sono stati scoperti miliardi di noduli polimetallici, il «grande bottino della transizione», hanno la forma e le dimensioni di una patata, contengono quantità fuori scala di metalli. Le licenze sono state concesse in mancanza di una regolamentazione, ma hanno spalancato l’appetito estrattivo.

Il piccolo stato insulare di Nauru, che sconta ancora i disastri coloniali dell’estrazione di fosfati, ha attivato una clausola che concede due anni di tempo all’International Seabed Authority per prendere una decisione. Dietro questa fretta c’è l’interesse di un’azienda canadese, la The Metals Company, che ha già un accordo economico con il microstato oceanico per far partire la catena industriale del valore.

È iniziato il conto alla rovescia, c’è tempo fino al 2023 per prendere una decisione, l’incontro di queste settimane sarà decisivo. Il conflitto attuale è tra chi porta avanti le ragioni della prudenza ecologica e climatica e chi quelle dello sviluppo produttivo legato alla transizione energetica. Da un lato c’è l’idea di lasciare intatti i fondali oceanici almeno fino a quando la nostra conoscenza scientifica non ci avrà portato la consapevolezza di rischi e benefici. Dall’altro il bisogno di risorse e gli interessi economici legati allo sviluppo dell’elettrificazione. Un compromesso non semplice da cercare, ancora più opaco in assenza di un vero dibattito sulla questione in ballo.

Per questa settimana è tutto, la prossima ci sentiremo un po’ di più. E poi: vacanze. Per parlare di quello che vuoi, o se sei a Torino per il Climate Social Camp, scrivimi: ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani: lettori@editorialedomani.it.

A presto!

Ferdinando Cotugno

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