Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questa è Areale, e oggi mi chiedo: ci sono grandi elettori fra di voi? Fatevi vivi, intanto iniziamo.

Gestire il caldo (anche se ora fa freddo)

Freetown (Sierra Leone), Miami-Dade e Atene sono le prime tre aree urbane al mondo ad avere nominato un heat manager, una figura pubblica il cui ruolo è gestire il caldo che c’è e quello che verrà.

Non è un compito da poco e non saranno gli unici, l’idea – sostenuta da una iniziativa della Extreme Heat Resilience Alliance – è prepararsi a un mondo urbano in cui la giustizia sociale segua le linee della temperatura che attraversano i quartieri e spezzano i ceti sociali e lungo le quali si muore di caldo.

Secondo una ricerca pubblicata l’anno scorso su PNAS, l’esposizione alle alte temperature in 13.115 città del mondo è triplicata tra il 1983 e il 2016: si tratta di 1,7 miliardi di persone che ogni anno devono affrontare la missione di vivere in trappole di calore. È quello che si chiama adattamento, attrezzarsi, anche al livello delle figure pubbliche, a vivere in un mondo nuovo e molto più opprimente per diversi mesi l’anno.

È un problema che nelle metropoli africane arriverà nel corso di questo secolo su scale impensabili. Un’elaborazione del Washington Post ci traccia l’orizzonte (è un lavoro magnifico, qui). Se guardiamo le prospettive di crescita urbana, 13 delle 20 città più popolate al mondo saranno in Africa (contro le due di oggi). È il continente con la più rapida urbanizzazione.

Lagos è la città più grande della Nigeria, il suo numero di abitanti è difficile oggi anche solo da stimare (tra 15 e 20 milioni), entro la fine del secolo supereranno quelli dell’Italia, solo a Lagos vivranno 80 milioni di persone. Kinshasa, in Repubblica Democratica del Congo, arriverà a 60 milioni. Mombasa, in Kenya, a 11 milioni di persone.

Queste megalopoli saranno forse il fronte più avanzato e problematico dell’adattamento alla crisi climatica. Nell’Africa sub-sahariana l’aumento delle temperature, secondo la World meteorological organization, può costare fino al 12 per cento del Pil. Per questo l’esito dell’esperimento in una città complicata come Freetown sarà particolarmente interessante.

La heat manager di Freetown si chiama Eugenia Kargbo. Il suo compito sarà innanzitutto aumentare la sensibilità pubblica al rischio del caldo, poi migliorare la resilienza, anche attraverso l’uso dei dati. Serviranno infrastrutture, policy e comunicazione pubblica per evitare stragi da alte temperature.

La Sierra Leone è il terzo paese al mondo per vulnerabilità climatica (dietro Bangladesh e Guinea Bissau). La capitale della Sierra Leone è l’avamposto di questa vulnerabilità (leggiamo su Bloomberg), un terzo della popolazione vive in insediamenti informali, è arrivata dalle zone rurali, che hanno vissuto una crisi dei raccolti causata dall’instabilità del clima. Questi insediamenti informali col caldo diventano trappole di metallo e lamiera.

La città ha in programma di piantare un milione di alberi, costruire 48 giardini urbani, lavorare a un sistema di allarme rapido per tutti gli episodi meteo a rischio, costruire dei centri di raffrescamento con ombra e acqua negli insediamenti informali.

Intuirete che servono fondi, soldi, e anche questa è la finanza sul clima di cui si è discusso a Cop26, i 100 miliardi di dollari che i paesi più ricchi hanno il dovere (e hanno promesso) di mettere insieme, per ora fallendo.

Per noi è ovviamente interessante anche il lavoro della heat manager di Atene, che potrebbe diventare invece un modello per come le città del Mediterraneo navigano un mondo sempre più caldo.

La scorsa estate Atene ha superato i 44°C e come tutta la Grecia è stata minacciata da incendi devastanti. Tutti dossier sulla scrivania di Eleni Myrivili, prima heat manager d’Europa. Al New York Times ha detto: «Il caldo è un killer insidioso e invisibile. È uno di quei rischi climatici che non vedi. È difficile anche solo parlarne, perché non vedi tetti che volano via o macchine che finiscono sott’acqua. È importante innanzitutto che le persone capiscano quanto è pericoloso».

Come per Freetown, nel suo piano devono convivere sia le policy che le infrastrutture, quindi quello che costruiamo ma anche come viviamo: secondo Myrivili serve più aria condizionata (che prima o poi dovrà diventare un diritto umano), quindi più energia elettrica, serve un asfalto diverso, servono pannelli solari e giardini sui tetti.

È un adattamento che richiederà decenni, lungo parametri che non conosciamo, perché non sappiamo quanto si aggraverà la crisi climatica di qui in avanti. I modelli ci danno scenari, ma poi c’è la realtà, che cambia di anno in anno (la scorsa estate l’Europa ha battuto il suo record di temperatura ed è successo in Italia). Ed è appunto una conversazione che dovremmo iniziare ad avere anche per le città italiane, anche se è gennaio, fa freddo e stiamo tutti pensando al Quirinale.

Visto che parlavamo di Africa

La tempesta tropicale Ana ha devastato in questi giorni Madagascar, Mozambico e Malawi, per ora il conteggio dei morti è di 77 persone, e in più migliaia di abitazioni distrutte, infrastrutture collassate, bestiame annegato, famiglie senza più niente. Non siamo tanto distanti per numeri dalle inondazioni di Germania e Belgio la scorsa estate, ma con un impatto impossibile da paragonare, visto che parliamo di alcuni tra i paesi più vulnerabili al mondo, e altrettanto disinteresse. In Madagascar ci sono stati 130mila sfollati.

Un’altra tempesta si sta formando nell’oceano Indiano, si chiama Batsirai, prima della fine della stagione in quella parte del mondo potrebbero essercene altre sei. Adattamento in Africa. Sarà il tema della prossima Cop27. Non c’è davvero più tempo.

E il Madagascar sta intanto affrontando la più dimenticata delle crisi umanitarie e anche di questo dobbiamo continuare a parlare. Negli ultimi tempi ha conquistato attenzione globale per una questione quasi epistemologica: quella del Madagascar è o no la prima carestia al mondo causata dalla crisi climatica? L’Onu si era esposto sul sì, per motivi più politici che scientifici, un modo per raccontare una storia che altrimenti non viaggia, rimane immobile nel disinteresse globale.

Il presidente del Madagascar Andry Rajoelina, aveva detto: «I miei concittadini stanno pagando il prezzo per una crisi che non hanno creato», che è una cosa comunque vera, a prescindere dalle attribuzioni.

Una ricerca di World Weather Attribution ha poi escluso una connessione diretta tra il riscaldamento globale causato dall’uomo e la siccità che ha colpito il Madagascar e ne ha devastato i raccolti e le prospettive alimentari. (World Weather Attribution è un network di scienziati specializzati nella ricerca rapida di collegamenti tra eventi estremi e crisi climatica, sono quelli che nel giro di una settimana riuscirono a dirci che la cupola di calore in Canada era effettivamente crisi climatica).

Le cause principali di quello che sta succedendo in Madagascar sono povertà, mancanza di infrastrutture, un’agricoltura che dipende troppo dalle precipitazioni. In ogni caso nel sud del Madagascar c’è una crisi umanitaria senza precedenti, tre anni in fila di una siccità che non si vedeva da quarant’anni, oltre un milione di persone sono al livello più alto di carestia riconosciuto dal World Food Program.

Una bomba innescata

C’è una bomba che ticchetta nel Mar Rosso ed è un’eredità tossica del mondo delle fonti fossili. Se esplodesse, aprirebbe scenari devastanti, in una parte di mondo già in ginocchio per una guerra civile in corso da anni. Ne avevamo parlato in passato, qualche mese fa, su Areale: c’è una petroliera praticamente abbandonata, vecchia di quasi cinquant’anni, al largo dello Yemen, completamente arrugginita, lasciata lì senza la cura né la manutenzione che richiede un colosso del genere, vicinissima alla costa (circa 6 chilometri), piena di petrolio (parliamo di 1,1 milioni di barili, 140mila tonnellate di greggio), al largo del porto di Hodeida, che è l’accesso principale agli aiuti umanitari nel paese.

Greenpeace è tornata a lanciare l’allarme legato al cargo FSO Safer (nome del quale non si può non vedere la crudele ironia, anche se deriva dall’area desertica dello Yemen dove si trovano le principali riserve petrolifere, vicino alla città di Marib). «La petroliera abbandonata pone una seria minaccia alle comunità e all’ambiente del Mar Rosso», ha detto il portavoce di Greenpeace Ahmed El Droubi. «L’azione per evitare un disastro gigantesco, o almeno mitigarne l’impatto, non può davvero più aspettare».

Foto Greenpeace

Nessuno sa di preciso cosa stia succedendo dentro la FSO Safer. Potrebbero essersi formati gas volatili pronti a esplodere, non c’è un sistema antincendio, non sappiamo quanto tempo rimane prima di intervenire, quindi quello che può succedere, può succedere in qualsiasi momento. È un conteggio alla rovescia di fatto alla cieca.

L’unica soluzione è intervenire subito, visto che dal porto di Hodeida, e da quello non lontano di Salif, passano aiuti alimentari che sono l’unico accesso sicuro al cibo per oltre otto milioni di persone. È a rischio anche la fornitura idrica di dieci milioni di persone, perché tra le infrastrutture coinvolte da un collasso della petroliera ci sarebbero anche i fondamentali impianti di desalinizzazione di Hodeida, Salif e Aden.

Il disastro coinvolgerebbe anche la pesca nel Mar Rosso e sarebbe un guaio anche per i paesi dell’area: Gibuti, Eritrea, Arabia Saudita, dal momento che la pesca è fonte primaria di cibo e proteine per milioni di persone. E sarebbero ovviamente da valutare gli impatti sulla salute di un inquinamento da sversamento di petrolio su larga scala, che potrebbe essere fino a quattro volte più grande del disastro Exxon Valdez del 1989, uno dei peggiori della storia.

Infine, ci sarebbero gravi ripercussioni anche sul commercio mondiale: il disastro potrebbe avere un impatto sul Canale di Suez, e lo scorso anno abbiamo imparato cosa significa perdere anche solo per pochi giorni quell’arteria. Traffico marittimo bloccato, costi per dieci miliardi di dollari al giorno.

Sono da mesi in corso trattative tra le Nazioni Unite e i ribelli anti-governativi Huthi per l’accesso alla nave. Quello che deve partire al più presto sono le operazioni per liberare la FSO Safer dal petrolio che contiene prima che questo greggio si riversi in mare.

La richiesta di azione di Greenpeace è rivolta alle Nazioni Unite, perché solo loro hanno l’autorità e la facoltà di intervenire in questo contesto di guerra civile. E poi c’è l’orizzonte più ampio, quello della transizione energetica: «I governi e l’industria petrolifera hanno l’obbligo morale di mettere in campo azioni ambiziose e smettere di mettere intere comunità a rischio, soprattutto quelle più acutamente vulnerabili e meno responsabili delle catastrofiche conseguenze della nostra dipendenza da fonti fossili di energia».

Quella petroliera è un relitto della nostra incoscienza. La Safer fu costruita nel 1976 dalla Hitachi Zosen Corporation per Esso Japan. Dieci anni dopo fu convertita da Esso in una nave di stoccaggio (e in quel momento fu rinominata Safer). Un anno dopo è stata ancorata al largo dello Yemen ed è passata alla società petrolifera del paese, Sepoc, che l’ha usata da allora per le manovre legate all’esportazione del petrolio nazionale. Quando è scoppiata la guerra civile è finita in mano ai ribelli, che controllano tutta la costa. La manutenzione costava 20 milioni di dollari all’anno, con il conflitto si è completamente interrotta e da allora è partito il conto alla rovescia.

Profezie verdi

Prima di salutarci, è uscito un libro interessante, che mi dà lo spunto per chiedervi una cosa.

Il libro è una raccolta di saggi pubblicata da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Si intitola Profezie verdi. Le origini del pensiero e dell’azione ecologista. L’ha curata Gianfranco Bettin, uno dei grandi ambientalisti italiani, ex prosindaco di Venezia ed europarlamentare.

È una miniera di letture, da Rachel Carson ad Alexander Langer. Contiene frammenti di tutta la storia che ci ha portato fin qui, ci sono le radici più antiche dei movimenti per il clima, è una lettura che consiglio soprattutto a chi è più giovane.

Da un passaggio che ho sottolineato: «Tutto il nostro lavoro (di analisi e di lotta) si pone all’interno della vita e della storia del movimento operaio italiano. Ma siamo anche convinti che le forze di sinistra che non si pongono i problemi di cui siamo portatori, che non lottano contro lo sfruttamento della natura, non solo compiono un errore, ma falliranno nel loro obiettivo essenziale: un socialismo che distrugge la natura, che costruisce centrali nucleari, che ci porta a vivere in ambienti disumani, che disprezza la vita, non è socialismo». Sono parole di Virginio Bettini del maggio 1977, da Proposta per un dibattito con i lettori, scritto per Ecologia.

A proposito, immagino e credo che tra le lettrici e i lettori di Areale ci siano persone che fanno attivismo ambientalista, a qualunque titolo, in qualunque contesto, nelle forme più varie. Dunque.

Sto lavorando a un progetto sull’attivismo, se avete voglia di raccontarmi quello che fate, e perché lo fate, per favore scrivetemi! La mail come sempre è: ferdinando.cotugno@gmail.com.

Quella per comunicare con Domani, invece, è lettori@editorialedomani.it

Buon sabato, a presto!

Ferdinando Cotugno

© Riproduzione riservata