Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana.


Sul fronte di Cosa nostra, già nel gennaio del 1986 la magistratura palermitana aveva disposto una perquisizione presso la sede del Centro sociologico italiano.

In quell’occasione erano stati sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori – obbedienza di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figuravano, tra gli altri, i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e di Giacomo Vitale, quest’ultimo cognato di Stefano Bontate (noto come Bontade).

I riscontri, allora effettuati sui nominativi dei presenti negli elenchi, avevano inoltre messo in luce che «molti dei soggetti presi in esame risultano avere precedenti penali per reati di mafia».

È sempre di quegli anni la nota vicenda, curata dalla magistratura trapanese, del Centro studi Scontrino presieduto da Giovanni Grimaudo, in cui grazie alle risultanze degli atti sequestrati si era accertato che nello stesso luogo avevano sede anche sei logge massoniche (Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram), nonché un’ulteriore loggia, quest’ultima segreta, il cui elenco degli iscritti veniva rinvenuto nell’agenda sequestrata al Grimaudo, tutti annotati sotto la dicitura "loggia C".

Nell’elenco di questa loggia coperta, accanto ai nomi di imprenditori, banchieri e liberi professionisti del luogo, figuravano quelli dei maggiori esponenti della mafia trapanese, della politica e della pubblica amministrazione locale.

La sentenza pronunciata dal Tribunale di Trapani il 5 giugno 1993 è comunque emblematica perché diede atto sul piano fattuale che le affiliazioni massoniche erano strumentali all’unica finalità di raccogliere attorno alla figura di Giovanni Grimaudo uno straordinario e pericolosissimo comitato d’affari, composto da personaggi di varia estrazione, appartenenti a mondi separati i quali, sfruttando la possibilità di incontro nel cono d’ombra delle logge spurie, avevano la possibilità di stringere rapporti e di collaborare per la realizzazione di interessi nei più disparati ambiti, dall’aggiudicazione degli appalti al traffico di stupefacenti.

Inoltre, non si deve dimenticare che il primo procedimento organico sulla massoneria deviata e sui rapporti con la ndrangheta è stato condotto dalla procura della Repubblica di Palmi nei primi anni novanta; successivamente è stato archiviato dalla procura della Repubblica di Roma, dove il procedimento era stato trasmesso per competenza.

L’indagine fu avviata sulla base di dichiarazioni di sedici pentiti, tra i quali il notaio Pietro Marrapodi, imputato di avere redatto numerosi atti di trasferimento per sottrarre al rischio di sequestro il patrimonio immobiliare della cosca De Stefano. Il notaio illustrò l’attività della

massoneria c.d. “deviata”, i metodi per occultare gli adepti tra i quali l’iscrizione in logge situate in luoghi diversi da quelli di residenza, spesso lontanissimi, o l’iscrizione “mediata” di prossimi congiunti.

Contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani erano, altresì, emersi nel processo celebrato a Palermo nel 1995 contro Giuseppe Mandalari - “gran maestro dell'ordine e gran sovrano del Rito scozzese antico e accettato" nonché ritenuto il commercialista di Salvatore Riina - che avevano confermato che sarebbe stato proprio costui a conferire il riconoscimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Giovanni Grimaudo e, soprattutto, che vi era stata un’interazione tra Cosa nostra e massoneria per condizionare l’esito di un processo.

La sentenza emanata, in tempi più recenti rispetto ai fatti, a carico di Mandalari ha accertato la pesante influenza esercitata da taluni "fratelli" sui giudici popolari della Corte d'assise chiamata a giudicare l'avvocato Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno destinata ad uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti.

L’interesse di Cosa nostra, come di altre organizzazioni mafiose, a rapportarsi con ambienti della massoneria per avere l’opportunità di interferire in qualche modo sulle indagini giudiziarie a loro carico nonché per far ottenere particolare benefici a favore dei detenuti, costituisce un tema invero piuttosto ricorrente in diverse indagini.

D’altronde, già nei primi anni Ottanta del secolo scorso, Gaspare Mutolo, agli esordi della sua collaborazione con la giustizia, ebbe ad affermare che alcuni uomini d’onore potevano essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per “avere strade aperte ad un certo livello”, per ottenere informazioni preziose provenienti da determinati circuiti e non solo. Il collaboratore riferiva, infatti, che taluni iscritti alla massoneria erano stati persino utilizzati per “aggiustare” processi attraverso contatti con giudici massoni.

A riprova dell’interesse della mafia ad infiltrare il mondo massonico quale mezzo per accedere ad altri circuiti di potere, giova ricordare le plastiche parole di uno dei primi collaboratori a parlare dell’argomento, ovvero Leonardo Messina: «È nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa nostra».

Tale dichiarazione sembra dunque confermare che da un certo momento in poi cosa nostra avesse superato ormai l’atavico canone in base al quale un uomo d’onore poteva essere legato, fino alla morte, al solo vincolo di appartenenza alla mafia, così escludendo la contemporanea adesione alla massoneria.

Nonostante lo stesso Giovanni Brusca, divenuto collaboratore di giustizia, ancora nell’anno 1998, avesse dichiarato che, per quanto a sua conoscenza, sotto il dominio dei corleonesi non era consentita l’iscrizione degli uomini d’onore alla massoneria, (apparendo la dichiarazione riscontrabile dalla circostanza che il numero delle logge nella provincia di Palermo risultava assai più ridotto rispetto a quello delle altre province della Sicilia ed in particolare rispetto al numero elevato di quelle esistenti nella provincia di Trapani) le dichiarazioni rese, poi, da Angelo Siino, collaboratore di giustizia e massone, fanno piena chiarezza sul punto. Il divieto per gli aderenti a cosa nostra di fare parte della massoneria continuava ad essere valido, ma solo sul piano formale.

“Le regole erano un po’ elastiche” – aveva spiegato Siino – “come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali”. I primi a coltivare queste relazioni, fuori dal vincolo mafioso, erano stati il già citato Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, che intuirono ben presto l’utilità di un’adesione a logge massoniche.

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