Cinquant’anni dalla morte – La scrittrice racconta l’amico, a cui nel 2022 ha dedicato il libro Caro Pier Paolo. «I giovani sono attratti dalla sua figura, perché lui era una persona sincera e non allineata»
Quando parla di Pier Paolo Pasolini, Dacia Maraini sorride. Una delle ultime vere signore della letteratura italiana, Maraini ha condiviso con il poeta di Casarsa gli ultimi anni della vita, fatta di momenti di intima amicizia, di viaggi insieme ad Alberto Moravia e Maria Callas ma anche di condivisione professionale. Nel suo libro ricordo del 2022, Caro Pier Paolo, ne ha tracciato un ritratto personale facendo emergere il Pasolini privato, più complesso e contraddittorio rispetto all’immagine pop che gli è stata costruita intorno negli ultimi anni.
Le capita ancora di sognarlo?
Certo. Soprattutto ho nelle orecchie la sua voce. La voce, sa, è ciò che rimane più impresso di una persona a cui si è voluto bene e che non c’è più. Sento ancora la sua voce, con quell’accento friulano. È come se mi parlasse ancora.
Cosa le direbbe in questo momento?
Non credo che sarebbe contento. Tira un’aria brutta, un’aria di guerra. Anche il linguaggio ora in voga è deteriore e violento, basato sulla denigrazione dell’altro. Credo che lui vivrebbe soprattutto questo come qualcosa di doloroso.
Lei era una delle sue più care amiche. Lo riconosce nel modo in cui viene ricordato in Italia?
Una parte del paese lo ricorda nel modo giusto: come una voce autentica che ha gridato, ha messo in allerta contro certi pericoli ed è stato profetico rispetto ad alcuni fenomeni, come nella sua critica alla società del consumo. D’altra parte, però, vedo anche persone che lo hanno attaccato quando era in vita e che ora lo esaltano e lo strumentalizzano. Mi fa sorridere, perché c’è qualcosa che non torna. Ma in fondo è sempre meglio l’esaltazione che la denigrazione.
È una figura che sembra non essere invecchiata: è molto amato anche dai giovani.
Io credo che siano attratti da lui perché era una persona sincera. Piace ai giovani perché non apparteneva a nessuno: a nessun partito, a nessun gruppo. Era davvero un uomo che voleva considerarsi libero.
Quale è il suo ricordo più caro di voi insieme?
Certamente i nostri viaggi in Africa. Lui adorava quel continente, ricordo viaggi in zone dove non c’era nulla: né turismo, né ristoranti, né alberghi, solo il deserto. Lì, lui si sentiva a suo agio e insieme abbiamo condiviso la gioia di vivere in un luogo fuori dal mondo, condividendo la scoperta di qualcosa che nel nostro paese non c’era più. Lo vedevo felice e oggi lo ricordo proprio come era allora.
Che cosa cercava?
Pier Paolo era alla perenne ricerca della purezza, sociale e collettiva, ma anche di un modo di stare al mondo innocente, ormai scomparso in Europa. Lui diceva che i valori borghesi avevano ucciso quello che c’era di più puro, di più innocente, di più bello nei nostri paesi. E lo cercava nelle popolazioni contadine dell’Africa.
Quali sono le sue opere a cui è più legata?
Per me Pasolini è stato prima di tutto un grande poeta e per conoscerlo davvero bisogna leggere prima di tutto le sue poesie. Poi vengono i suoi film: nel suo cinema c’è molta dell’attenzione lirica che metteva nelle poesie. Infatti il suo non è stato un cinema realistico, ma simbolico.
La verità sulla sua morte ancora non c’è.
A cinquant’anni dal delitto, non si è riusciti a scoprire chi abbia ucciso Pasolini. Ma si è provato tante volte a riaprire il caso, non è mai stato possibile. Anche questo fa capire che dietro il suo omicidio ci sia qualcosa che va al di là di un delitto qualsiasi: c’è ancora la volontà di far tacere qualcuno e di nascondere come sono andate davvero le cose.
L’unico condannato è stato Pino Pelosi.
Pelosi si è denunciato ma era minorenne, è stato condannato a nove anni e ne ha scontati quattro. Poi alla fine, prima di morire, ha detto che non era stato lui. Ha raccontato che c’erano tre persone, che era stato ricattato e che lo avevano minacciato di uccidere i suoi parenti. I nomi, però, non li ha fatti. Ci sono solo sospetti: gli stessi che sono alla base di molti delitti italiani e che legano i depistaggi ai servizi segreti. La morte di Pasolini rimane uno di questi misteri.
Lei cosa crede?
Che il delitto Pasolini andrebbe rivisto. Lui ha detto tante volte: «Io so chi ha ucciso Enrico Mattei», ci può essere ancora qualcuno che teme che emergano verità scomode. La morte del presidente dell’Eni è un altro di quei misteri di stato e viene da pensare che più di qualcuno non abbia voglia di riaprire quel capitolo. Però, purtroppo, non esiste prova di nulla.
Pasolini, inteso come voce critica e intellettuale, ha degli eredi?
Le rispondo così: Pasolini è vissuto in un momento in cui gli intellettuali erano uniti, avevano un senso di comunità che li portava ad essere solidali gli uni con gli altri. A unirsi, per esempio, per denunciare la censura oppure certe scelte del governo. Oggi, invece, questa unità non c’è. Gli intellettuali di oggi sono frammentati, ognuno per conto suo, e questo impedisce di creare un pensiero comune. Questo manca oggi: un pensiero comune riconosciuto in modo collettivo, e questa è una grande debolezza.
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