Tra contrasti e influenze reciproche, le traiettorie di Pasolini e Zavattini si incrociano solo episodicamente. Fino all’agosto del ‘68, quando si ritrovano entrambi protagonisti delle proteste alla Mostra del cinema di Venezia
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Il rapporto fra i due più versatili e multiformi artisti italiani del secolo, per il resto frammentario e occasionale, s’infiamma nel più pubblico e clamoroso dei contesti: alla fine d’agosto del 1968, quando alla XXIX Mostra del cinema di Venezia va in scena la “Biennale della contestazione” (come la chiamano, divertiti se non scandalizzati, i media del tempo). Il maggio precedente a Cannes, mentre a Parigi pareva davvero ci fosse la rivoluzione, s’era deciso di soprassedere ai riti della Croisette; mentre alla Biennale d’Arte, a giugno, dopo i pestaggi dei celerini il giorno della vernice (documentati dalle foto elettriche di Ugo Mulas e Gianni Berengo Gardin), molti artisti avevano preso cappello (altri, come Gastone Novelli, sarcastici avevano lasciato i loro quadri, ma rovesciati e con su scritto lo slogan dei contestatori, “La Biennale è fascista”).
In quell’estate caldissima Pasolini, che alla Mostra è in predicato di presentare l’ambizioso Teorema, è reduce dai versi incendiari del PCI ai giovani!!, in risposta agli scontri di marzo a Valle Giulia, anticipati il 18 giugno dall’“Espresso” col provocatorio titolo Vi odio cari studenti; e all’inizio prosegue sui giornali la sua polemica contro i rivoltosi “figli di papà”. Ma quando sbarca in Laguna, e vi trova i colleghi dell’Anac (l’associazione che riunisce gli Autori cinematografici) autoconvocati nel Palazzo del Cinema e decisi a chiedere l’abolizione dello statuto della rassegna risalente al fascismo, la cancellazione dei premi, l’autogestione della Mostra e la rimozione del suo direttore Luigi Chiarini, a sorpresa decide di unirsi a loro – diventando subito uno dei leader della protesta (propone fra l’altro un contro-festival che non riesce però a decollare; Pasolini ci riuscirà l’anno dopo, insieme a Giuseppe Zigaina, con le Settimane internazionali del cinema di Grado).
A capeggiare i rivoltosi (fra i quali si distinguono Marco Ferreri e Citto Maselli, che vengono anche malmenati da un gruppo di contro-manifestanti fascisti) c’è appunto uno strepitante Zavattini, che dell’Anac diverrà poi presidente: quando la notte fra il 26 e il 27 agosto la Polizia, dopo due giorni di assemblee, fa irruzione nella Sala Volpi è lui che, insieme ad altri occupanti, viene trasportato via a braccia (la scena viene filmata, e resta fra quelle più iconiche del Sessantotto italiano; di quelle “lotte frontali”, dichiarerà poi Za, andava più fiero “che di un film, di un libro”). Così la Mostra può finalmente aprire i battenti e, benché Pasolini dichiari di non voler più partecipare, Teorema viene proiettato ugualmente dal produttore Franco Rossellini (nipote di Roberto, a capo della fazione di chi contesta i contestatori…). La premiazione, che consegna la Coppa Volpi a Laura Betti per l’interpretazione di Teorema, il Leone d’oro ad Alexander Kluge e il Gran premio della giuria a Carmelo Bene (che si presenta alticcio e lascia cadere il trofeo durante la cerimonia), resterà l’ultima sino all’edizione del 1980: lo statuto viene cambiato, e Chiarini si dimette.
Mentre Teorema viene sequestrato e dissequestrato, premiato e poi spremiato dall’OCIC (Office Catholique International du Cinema), redarguito per questo dall’“Osservatore Romano” e persino da papa Paolo VI, Pasolini e Zavattini insieme ad altri vengono citati a giudizio per l’occupazione (verranno prosciolti solo nel ’70). Alla Mostra del ’69, sempre senza il consenso di Pasolini, verrà proiettato Porcile: sarà l’ultimo suo film presentato a Venezia. Come accennato, sino a quell’esplosione le traiettorie di Pasolini e Zavattini s’erano incrociate episodicamente e all’insegna, parrebbe, della reciproca cautela. Nello charivari della Cinecittà anni cinquanta non saranno mancate fra i due occasioni d’incontro, e magari di scontro (le loro mani sono entrambe accreditate, per esempio, nella stesura dei dialoghi dei personaggi italiani di Addio alle armi: film hollywoodiano del ’58 tratto dal romanzo di Hemingway ambientato in Italia ai tempi della Grande Guerra).
Sempre ambivalente si è in effetti mostrato Pasolini nei confronti del Neorealismo, che ha in Zavattini un inevitabile punto di riferimento (in positivo o in negativo), ma cenni a una maniera “zavattiniana” non mancano in un soggetto da lui scritto nel ’64, La (ri)cotta, che sin dal titolo si rifà al suo celebre mediometraggio dell’anno prima, La ricotta; e nello stesso anno all’ispirazione del non meno celebre film-inchiesta Comizi d’amore, nel quale Pasolini in prima persona intervista gli italiani sulla sessualità, non parrebbe estraneo il “cinemaverità” del film a episodi Amore in città, ideato da Zavattini nel ’53. Ma Za non apprezzerà mai davvero il cinema di Pasolini che (scrive nei suoi diari poche settimane prima della sua morte, nel settembre del ’75) gli pare “usare la macchina da presa in lingua non in dialetto”, e che secondo lui (alla fine del ’76) “ancora intricato nelle culture dominanti”.
Proprio all’insegna del dialetto, però, si consuma il secondo incontro fra i due. L’unico contatto epistolare documentato è una lettera del marzo del ’55, nella quale Zavattini ringrazia Pasolini per l’invio delle “poesie friulane” della Meglio gioventù, uscite l’anno prima, che gli hanno ispirato – dice – “il desiderio di tornare al suo paese, ma per guardare meglio le cose, dal fieno sulla pelle sudata a una ragazza che viene avanti muovendo l’aria con un ramoscello”. Parrebbero frasi di circostanza, ma quell’anno esce Un paese, il libro dedicato appunto a Luzzara che Zavattini ha realizzato insieme al fotografo americano Paul Strand; e forse nell’occasione viene gettato il seme che tanto tempo dopo, nel ’73, fiorirà nelle sorprendenti poesie in dialetto di Stricarm’ in d’na parola. A qualche mese dall’uscita, nella rubrica di recensioni che tiene sul settimanale “Tempo” e che dopo la sua morte diverrà Descrizioni di descrizioni, ne scrive Pasolini (che a sua volta sta tornando sulla Meglio gioventù, per quella rivisitazione “in nero” che ne pubblicherà l’anno dopo col titolo La nuova gioventù): entusiasta di Zavattini che, “all’età di venticinquemila cinquecento giorni, ha scoperto il dialetto”, così scrivendo “il suo libro di gran lunga più bello. Anzi, un libro bello in assoluto”.
Pasolini interpreta quello poetico di Zavattini come “un libro demoniaco”, all’insegna “della più scandalosa sincerità”. È in assoluto uno dei suoi scritti più intensamente psicoanalitici, questo che insiste sull’“erotismo senile” che fa regredire chi scrive “fino alle più lontane origini infantili” e addirittura a una condizione prenatale. L’ossessione per la regressione uterina e l’ambivalenza della genitalità, che accomuna questo testo ad altri pasoliniani dello stesso periodo (come la recensione ai componimenti pornografici del poeta veneziano del Settecento Giorgio Baffo, o il controverso “scritto corsaro” contro l’aborto), è senz’altro influenzata dalla lettura di Thalassa di Sàndor Ferenczi, che gli torna utile pure nei rituali misterici di Petrolio: è nel suo cantiere che Pasolini è sprofondato in quei mesi convulsi. Quelle pagine in ogni caso Za le terrà sempre care: e le vorrà all’interno del volume riassuntivo delle proprie Poesie, uscito infine nel 1985. Per la promozione raccomanda di usare una frase solamente: “Un libro bello in assoluto. Pasolini”.
da A Z Zavattini, a cura di Guido Conti, Electa, 2025.
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