Pier Paolo Pasolini avrebbe fatto in questi giorni cento anni. S’inaugura, in mezzo a una guerra ogni giorno più spaventosa, l’anno pasoliniano. Qualche giorno fa ero ospite a Fahrenheit, su Radio 3, che è riuscita in tre ore a mettere insieme una trasmissione molto bella nonostante la complessità che occorre affrontare nel commemorare un autore con un’opera e una biografia così stratificata, e mi sono chiesto: a che serve un centenario?

Il contributo di Walter Siti lì è stato essenziale, per riportare ogni volta a dati testuali e fattuali le convinzioni che ognuno di noi proietta su Pasolini. Anche l’articolo dello stesso Siti di qualche giorno fa su Domani aveva il pregio di sfrondare i luoghi comuni e le aure inutili intorno all’ultimo romanzo, Petrolio, ripubblicato da pochissimo in edizione critica da Garzanti.

Osceno, sperimentale, sapienziale, capace di dire la verità sulle stragi di stato, capolavoro? Piuttosto un testo lasciato a metà, stilisticamente disomogeneo, con intuizioni illuminanti e idee ancora confuse.

Il culto letterario

Siti, che è anche il curatore dei Meridiani di Pasolini, non è nuovo a questa pratica di demistificazione; nel 2006 ha scritto su Micromega e nel 2015 ha riscritto su Le parole e le cose, anche lì in occasione di anniversari, un intervento che faceva i conti con la mitologia di Pasolini: l’incarnazione della poesia stessa assassinata dalla società, il profeta visionario, il coraggioso intellettuale martire, lo scrittore capace solo con la passione di fare letteratura e critica del presente, l’omosessuale scomodo ma esemplare, un rivoluzionario nostalgico. Siti parlava di Pasolini parlando di un genere di culto letterario.

Tutte queste figure di PPP si ripropongono oggi nel momento in cui abbiamo a che fare con il suo centenario, e anzi si moltiplicano dal momento in cui la figura di Pasolini è andata ben oltre la sua mitizzazione.

Il rischio di farne un’icona pop si è già avverato: gli occhiali con la montatura pesante, il giacchetto di pelle, lo sguardo intenso, i capelli scompigliati. Quell’icona lì è già sulle pareti dei locali hipster da vent’anni. Il suo sguardo è riprodotto in serie negli infiniti servizi fotografici in bianco e nero su qualunque borgata con i ragazzini con le facce antiche e qualche palestra di pugilato. Il giornalismo “pasoliniano” è un genere da più di trent’anni.

Un feticcio dell’impegno

Così come quello di fare di Pasolini un feticcio dell’impegno ridotto a merce è uno dei modi più usuali in cui abbiamo a che fare con la sua opera e la sua vita. La generazione neonata o superstite alla morte cristologica di Pasolini ha spesso letto Il romanzo delle stragi, quel famoso apologo dell’«io so, ma non ho le prove» come un j’accuse e un testamento insieme, e interpretato la sua poetica evocativa o la sua testimonianza di isolamento come capacità visionaria: Pasolini che aveva intuito, aveva previsto, aveva profetizzato. 

Questo ha concesso spesso agli scrittori di autolegittimarsi una via più corta – aruspicina se non oracolare – per comprendere e dire la propria su questioni vaste e complesse. Il talento con cui Pasolini si è inventato tanti mestieri diversi essendo un letterato di formazione: romanziere, poeta, critico culturale, drammaturgo, editorialista, sceneggiatore, documentarista, reporter, regista, … e soprattutto la dedizione con cui ha fatto l’intellettuale pubblico militante non gli ha però consentito per esempio di imparare velocemente a praticare il giornalismo d’inchiesta, come forse stava tentando negli ultimi anni della sua vita rispetto alla vicenda Eni; e chissà se non sia stata quest’imperizia a averlo avvicinato alla morte.

Il consumismo

Pasolini critico della società dei consumi, ma anche autore capace di trasformare la sua fame di conoscenza in appropriazione culturale e quindi modello per il consumismo culturale.

Franco Ferrarotti notava già nel 1974 come il pasolinismo potesse essere facilmente alterarsi in un antimetodo: «Questo esploratore notturno delle borgate romane in Alfa Romeo 2000 Gran turismo fa sistematicamente coincidere la ricerca del suo piacere personale privato con una missione politica pubblica. È l’antico vezzo dell’intellettuale italiano: il mondo ridotto a pretesto».

Siti lo scriveva con nettezza: «Pasolini non era un avversario del consumismo, ne era un modello». Sono giudizi impietosi che oggi vanno a loro volta datati e discussi, ma sicuramente questo segmento del mito Pasolini ha finito anche per consentire a chi lo coltiva la soddisfazione di avere delle opinioni forti senza bisogno di controllarle sui libri o nello studio sul campo.

Ecco Pasolini è diventato, suo malgrado, il modello dello scrittore come icona, merce, brand. Frasi decontestualizzate possono fare da slogan a campagne pubblicitarie o auguri di compleanno: il verso «Ti impediranno di splendere. E tu splendi invece» cos’è se non un claim motivazionale?

Ragionare su questo genere di questioni, senza moralismi o facili soluzioni, a partire dal centenario pasoliniano ha due sensi. Il primo riguarda l’uso pubblico delle memorie culturali. Anche a Roma anche ci sarà un profluvio di iniziative su Pasolini, e sono stati stanziati un bel po’ di fondi dall’assessorato alla Cultura. Come usarli al meglio?

Il secondo mette in discussione la centralità invadente che hanno assunto gli anniversari anche nel dibattito culturale, tra pagine dei giornali e nuove pubblicazioni dedicate.

È chiaro che in questo modo è molto facile che si finisca per fare dell’iconolatria anche con i convinti iconoclasti – il caso di Pasolini è paradigmatico, ma si può adattare anche altri centenari, come quello di Fenoglio o di Flaiano, che celebriamo quest’anno, o a quello di chiunque altro autore.

La memoria svilita

Ma soprattutto la possibilità che si rischia di mancare è quella con la contestualizzazione, che vuol dire con l’attrito che le opere e gli autori hanno con la storia, e fare un cattivo servizio alle memorie.

Dovrebbe essere evidente come l’abitudine nel fare degli autori sempre degli scrittori di temi o scrittori civili, non vuol dire politicizzarli ma depoliticizzarli, renderli buoni per ogni battaglia se non per ogni presa di posizione.

È il destino toccato persino a Pasolini mostrificato in un cantore della polizia, a partire dalla sua poesia su Valle Giulia. O il destino toccato a Pasolini o Flaiano a cui in modo alternato si attribuisce la frase «il fascismo degli antifascisti», per farne dei paradossali riferimenti per il mondo neofascista (nella straordinaria operazione di cura da parte di Garzanti dell’opera pasoliniana c’è l’eccezione vile del pamphlet Il fascismo degli antifascisti). Ha fatto bene qualche anno fa Wu Ming a decostruire queste calcificazioni ormai invalse.  

Ma questo genere di analisi sulle distorsioni e gli eccessi delle commemorazioni sono rare. Le pagine culturali sono spesso dettate dalla scansione degli anniversari, e la riflessione storica anche sulla storia letteraria è molto condizionata dalla necessità degli omaggi e dall’impulso all’idealizzazione.

Serve tutto questo? Serve inondare le librerie di testi che nascono sulla scorta di un anniversario? Serve rendere ogni ricorrenza una sorta di giornata della memoria? O non è questa un’alterazione diffusa che ha contagiato persino spazi centrali del discorso pubblico? E persino del servizio pubblico: il programma di punta sulla storia della Rai, La grande storia, si è ribattezzato recentemente La grande storia – Anniversari.

Antidoti contro la smania celebrativa

Quale antidoto sperimentare contro questa smania celebrativa? Ci sono forse un paio di possibilità da percorrere. La prima è quella di reimmaginare le iniziative culturali – che siano su un giornale, o su un territorio – sempre di più come una costruzione di spazi di studio e di dibattito permanente.

Sarebbe bello avere in città a Roma, per esempio un archivio Pasolini o Flaiano, o costruire almeno online un archivio audiovideo in cui raccogliere materiali, fonti primarie, secondarie, anche per non disperdere quello che si produce durante le occasioni dedicate, che sia un anniversario o una mostra.

La seconda è quella di collegare le battaglie culturali e politiche degli autori che ricordiamo a quelle attuali. Recentemente ero in un’occupazione vicino piazza Bologna a Roma dove si è tenuto un piccolo seminario su Alberto Manzi, il maestro di Non è mai troppo tardi: è chiaro che la militanza e la lezione pedagogica di Manzi in quel contesto, con bambini che faticano a avere una continuità scolastica non vuol dire solo ricordare l’esempio, ma diffondere pratiche di intervento sociale e di riflessione teorica. E quello con i problemi a noi prossimi è un anniversario che cade tutti i giorni.

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