Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha dato il via libera alla vendita di una partecipazione nel porto di Amburgo all’azienda statale cinese Cosco. Il gigante, che possiede già il 67 per cento del Pireo, il 35 per cento di Rotterdam e il 20 per cento del porto di Anversa, vuole entrare in uno dei quattro terminal amburghesi con una quota del 35 per cento. Ill governo ha però deciso di permettere l’ingresso solo con una quota del 24,9 per cento. Finora, l’azionista di maggioranza del porto è una controllata della città-stato di Amburgo, che detiene il 69 per cento. 

Il governo federale ha diritto di veto in questo tipo di accordi sulle infrastrutture strategiche, una sorta di golden share. Ma il cancelliere non ne ha fatto uso, nonostante abbia ricevuto pareri negativi sull’accordo commerciale da Commissione europea, servizi segreti e sei ministeri del suo governo, incluso quello della Giustizia e quello dell’Economia. Soprattutto l’ultimo di questi dicasteri, guidato dal vicecancelliere verde Robert Habeck, ha espresso una ferma opposizione. 

Opportunità e radici

I piani che si incrociano in questa decisione sono parecchi. Il primo è sicuramente quello che attiene all’opportunità di permettere a un’azienda così legata alle indicazioni di Pechino di accedere ai dati sensibili che riguardano il commercio amburghese. Secondo il partito del cancelliere, la Spd, il colosso cinese non riceverebbe accesso a infrastrutture critiche. Chi è favorevole all’accordo sostiene che la partecipazione è minima e riguarda solo il più piccolo dei quattro terminal che compongono il porto.

Le trattative su questo affare vanno avanti da tempo. Cosco era in contatto con l’amministrazione cittadina già quando Scholz era ancora sindaco della città anseatica, ma c’è da dire che la società lavora con il porto di Amburgo già da molti anni. Il rapporto tra il cancelliere e la sua città d’origine è il secondo piano su cui si articola questa vicenda: la città-stato è intrinsecamente legata all’attività del suo porto e dare il via libera all’ingresso di Cosco possa portare il colosso cinese a scegliere Amburgo come “preferred hub”, scalo privilegiato, rispetto alle altre realtà di cui è azionista. O almeno, questo è quanto hanno promesso da Pechino. Anche per politici di orientamento diverso da quello del cancelliere, questa è una delle argomentazioni principali per sostenere l’accordo: ad appoggiarlo non è soltanto il sindaco socialdemocratico della città anseatica Peter Tschentscher, ma anche il governatore conservatore del Land confinante, lo Schleswig-Holstein, Daniel Günther. 

La domanda dei critici è cosa possa succedere se l’accordo non vada in porto o, peggio ancora, scrive la stampa tedesca. se gli amburghesi rimanessero in balia delle decisioni del governo cinese. A quel punto, Pechino avrebbe una leva potente per intervenire sul governo tedesco, com’è successo per esempio in Lituania e in Grecia. Quando a Vilnius Taiwan ha aperto la sua ambasciata, il governo cinese ha reagito boicottando i prodotti lituani. Alla stessa maniera, quando nel 2016 i migranti avevano occupato i binari di Idomeni per chiedere condizioni migliori: di fronte alle lamentele dell’ambasciatore cinese per i problemi che la protesta provocava al Pireo, l’allora primo ministro Alexis Tsipras fece liberare i binari con la forza. 

La linea Berlino-Pechino

Il terzo piano è quello della strategia cinese di Berlino. I partiti, che pure eccezion fatta per la Spd hanno linee divergenti a livello locale e nazionale, sono per lo più distanti dalla linea di Scholz. La Cdu, il principale partito di opposizione, ha anche incoraggiato i due partner di governo Fdp e Verdi a votare contro la linea della cancelleria in un voto che intende chiedere sulla vicenda in parlamento. Quel che è certo è che la decisione dovrà arrivare entro il 31 ottobre. Se Berlino non agirà, Cosco e l’azienda che gestisce il porto avranno il nulla osta per con concludere l’acquisto. 

L’argomento comune a opposizione, partner di governo e società civile è che un’altra dipendenza da un partner ambiguo e imprevedibile come Pechino non è sostenibile per la Germania, specialmente dopo l’esperienza russa. I più duri su questo punto sono i Verdi, che da sempre tengono una politica molto meno tollerante nei confronti di Pechino rispetto agli altri partiti tedeschi, anche per i forti legami con la politica estera di Washington. La ministra degli Esteri Annalena Baerbock mantiene un tono diplomatico e in un’intervista ha detto che «Non dobbiamo renderci dipendenti dalla Cina per non scivolare in una situazione simile a quella che stiamo vivendo in questi giorni con la Russia».

Molto più netto è invece Jürgen Trittin, ex ministro e volto storico della politica estera verde. Oggi è responsabile Esteri del partito e in una dichiarazione dei giorni scorsi va dritto al punto: «La possibilità della Cina di decidere per un’apertura maggiore durante il ventesimo congresso del Partito comunista sembra ormai persa. Xi Jinping ha dato un segnale di staticità. Diventa ora ancora più importante per l’Ue di presentarsi unita al cospetto della Cina. La coalizione giustamente critica il via libera che il governo ha intenzione di dare al progetto di Amburgo. Anche il cancelliere Scholz dovrebbe dare maggiore peso alle obiezioni dei ministri, della Commissione Ue e dei servizi segreti». 

L’industria

Ma tutti convergono sul fatto che il cosiddetto “decoupling”, lo sganciamento definitivo dei due paesi, sia ormai impossibile. Le due realtà sono ormai troppo collegate, soprattutto dal punto di vista economico. Le aziende tedesche fanno affari di grosso calibro in Cina e spesso fanno riferimento a catene di valore che cominciano o finiscono in Cina o addirittura si aprono e si concludono nel paese. Per mettere mano a questa tendenza, il ministero dell’Economia ha iniziato a ragionare su una riduzione delle sovvenzioni alle aziende per l’investimento in Cina. Una possibilità che non è stata giudicata positivamente dalle aziende a cui è stata proposta dal ministro Habeck. Secondo l’industria, infatti, la strada migliore per ridurre i legami con la Cina – che pure è uno sviluppo necessario, ma per motivi legati allo spionaggio industriale, alla concorrenza scorretta e al mancato rispetto dei diritti umani – non è quella proposta dal ministro. 

Secondo gli esperti, l’unica strada possibile è quella di diversificare gli investimenti, potenziando il legame economico con le altre realtà asiatiche per costruire un contrappeso credibile alla potenza cinese. Una teoria che torna anche nella dichiarazione di Trittin sul piano politico: «La via che può rafforzare sovranità e resilienza europee nei confronti della Cina è quella dell’ulteriore diversificazione dei rapporti europei nell’area asiatica». Proprio la linea che persegue l’amministrazione Biden. 

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