Seduti a due tavoli distanti oltre 7mila chilometri, in videoconferenza anziché faccia a faccia come nelle precedenti edizioni, il 28 aprile scorso 25 ministri cinesi e tedeschi si sono riuniti per la sesta consultazione bilaterale tra i rispettivi governi. Questi vertici – un beneficio che, nell’Unione europea, la repubblica popolare cinese ha riservato alla Germania – vennero inaugurati nel 2011, quando al potere a Berlino c’era già Angela Merkel, la cancelliera che, con i suoi quattro mandati consecutivi, ha contribuito a elevare ai massimi livelli le relazioni tra due sistemi molto diversi, ma che attribuiscono entrambi enorme valore alla stabilità politica, e che stanno riconfigurando l’ordine europeo e quello asiatico a beneficio delle proprie rinascite nazionali.

La repubblica federale tedesca e la repubblica popolare cinese si riconobbero reciprocamente l’11 ottobre 1972, poco dopo il viaggio di Richard Nixon a Pechino che diede l’avvio alla normalizzazione dei rapporti Cina-Stati Uniti. All’inizio degli anni Ottanta fu il cancelliere Helmut Kohl (del partito di Merkel, la Cdu) a intuire le potenzialità della cooperazione con la Cina di Deng che si apriva al mercato. Da quel momento i rapporti tra i due paesi si sono concentrati sullo scambio tra tecnologia tedesca e mercati cinesi.

L’autonomia delle corporation

Il suo sito istituzionale oggi descrive Siemens come «parte integrante dell’economia e della società cinese». Nella repubblica popolare impiega 4.600 ingegneri che lavorano in 21 hub di ricerca e sviluppo: la Industrie 4.0 di Siemens è il modello al quale è ispirato “Made in China 2025”, il piano di ammodernamento della manifattura cinese. Volkswagen è la prima compagnia straniera alla quale, un anno fa, Pechino ha dato la possibilità di una joint venture di maggioranza: 75-25 per cento con la Jac per fabbricare veicoli elettrici. L’industria automobilistica – il settore più importante dell’economia tedesca – vende più macchine in Cina che in Germania.

Avendo superato Stati Uniti e Paesi Bassi, nel 2020 la Germania si è confermata, per il quinto anno consecutivo, il primo partner commerciale della Cina, con 212 miliardi di euro di interscambio. Mentre, sempre nel 2020, il commercio con gli Stati Uniti (che restano la principiale destinazione del colossale export tedesco) è diminuito del 9,7 per cento. Le esportazioni tedesche in Cina sono il 48,5 per cento di quelle dell’intera Ue, 4,5 volte quelle della Francia.

Un quadro che induce molti economisti a prevedere che, qualunque sarà la coalizione di governo del dopo-Merkel, la “partnership strategica onnicomprensiva” con Pechino non ne sarà intaccata.

La politica cinese della Germania è stata improntata al principio Wandel durch Handel, favorire il cambiamento attraverso il commercio: come gli americani, i tedeschi s’illudevano che col benessere in Cina sarebbe arrivata la democrazia liberale. Invece la Nuova era proclamata da Xi Jinping ha impresso alla storia tutt’altra piega. E ora, come ai tempi della svolta di Nixon, Berlino guarda a Washington: questa volta teme che il suo containment della Cina possa danneggiare gli interessi tedeschi, ma non ha dubbi sulla sua collocazione atlantista.

I verdi: ora duri con Pechino

Il 2 agosto scorso, dalla base navale di Wilhelmshaven è salpata la “Bayern”, la fregata che nelle prossime settimane raggiungerà il Mar cinese meridionale, dove la Cina ha contenziosi territoriali con i suoi vicini asiatici. La ministra della Difesa ed ex presidente della Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer, ha twittato: «Il messaggio è chiaro: stiamo difendendo i nostri valori e interessi assieme ai nostri partner e alleati».

Prudente il candidato cancelliere della stessa Cdu, Armin Laschet, che sostiene: «Dobbiamo discutere delle nostre preoccupazioni sui diritti umani, ma non c’è alcuna necessità di ribaltare la nostra politica sulla Cina».

Annalena Baerbock, candidata alla cancelleria dei Verdi, insiste perché l’Unione europea aumenti i dazi sulle merci importate da «compagnie che vengono sussidiate nel mercato cinese o che non sono soggette al rispetto di standard ambientali». Per la candidata tra Unione europea e Cina è in corso una «competizione di sistemi che contrappone le democrazie liberali a forze autoritarie». «Dobbiamo portare avanti una politica estera chiara nei confronti delle forze autoritarie che sia dialogante, ma dura al tempo stesso», ha spiegato alla Frankfurter Allgemeine Zeitung.

E se il nuovo cancelliere sarà Olaf Scholz della Spd (in testa nei sondaggi)? «Qualsiasi cancelliere, qualsiasi nuova coalizione dovrà cambiare linea sulla Cina, perché la Cina è cambiata», ha tagliato corto Nils Schmid, il portavoce degli affari esteri dei socialdemocratici.

Gli analisti cinesi da un lato scommettono che, archiviata la retorica da campagna elettorale, a prevalere alla fine saranno gli interessi della Germania. Dall’altro però – ha riassunto Sun Keqin, ricercatore del China Institute of Contemporary International Relations – «dobbiamo stare in guardia dai rapporti dei politici tedeschi con gli Stati Uniti, che influenzeranno sempre di più la cooperazione Cina-Germania».

La Germania è anche uno dei paesi europei più sensibili ai diritti umani. Da questo punto di vista la sua azione si è rivelata inefficace e un po’ ipocrita, con blande rimostranze durante gli incontri ufficiali confinate in un paio di righe nei comunicati stampa, e l’accoglienza concessa a qualche celeberrimo dissidente come, nel 2015, l’artista Ai Weiwei.

Le sanzioni e l’alt a Huawei

Ciò che sta mutando l’atteggiamento della politica tedesca è, da un lato, la svolta autoritaria di Xi Jinping e, dall’altro, i progressi della Cina, che ha sempre meno bisogno delle compagnie straniere nel momento in cui sta facendo compiere il salto tecnologico alle sue, e che è decisa a non aprire più di tanto il suo settore finanziario.

Alle sanzioni imposte il 22 marzo scorso dall’Unione europea contro un gruppo di funzionari del Partito comunista cinese per la repressione delle minoranze islamiche nel Xinjiang, Pechino ha risposto il giorno stesso vietando l’ingresso e la possibilità di fare affari con la Cina a, tra gli altri, gli europarlamentare Reinhard Butikofer (Verdi), Michael Gahler (Cdu), al ricercatore Adrian Zenz e al prestigioso centro di ricerca berlinese Mercator institute for China studies (Merics).

Secondo uno studio del Pew research center pubblicato nel giugno scorso, i tedeschi che hanno un’opinione negativa della Cina sono passati dal 37 per cento nel 2002 al 71 per cento nel 2021 (terzi in Europa, dopo gli olandesi con il 72 per cento, e gli svedesi con l’80 per cento). Il piano per la nuova manifattura “Made in China 2025” pubblicato nel 2015 e il XIX Congresso nazionale del Partito comunista che ha proclamato la Nuova era della Cina hanno mutato anche l’atteggiamento dei gruppi d’interesse. Un documento strategico della Federazione delle industrie tedesche (Bdi) pubblicato il 10 gennaio 2019, intitolato Partner and Systemic competitor - How to cope with China’s state driven economic model?, partendo dal presupposto che «siamo di fronte a una competizione sistemica tra il nostro approccio che prevede mercati aperti e il modello economico cinese guidato dallo stato» raccomandava che «nonostante l’attrattiva del mercato cinese, per le aziende sarà sempre più importante esaminare attentamente i rischi del loro impegno in Cina e ridurre al minimo la loro dipendenza diversificando le catene di fornitura, gli impianti di produzione e i mercati di vendita». Un paio di mesi più tardi la Commissione europea presieduta da Jean-Claude Juncker identificò la Cina come “rivale sistemico”.

Angela Merkel è stata tra i principali sponsor del Comprehensive agreement on investment, approvato l’anno scorso nell’ultimo giorno di presidenza tedesca del Consiglio dell’Unione. Eppure il Cai è stato bloccato dal parlamento di Strasburgo. E che dire del Bundestag, i cui deputati (anche della Cdu) hanno approvato una legge che limita l’accesso di Huawei all’infrastruttura 5G tedesca?

Qualsiasi governo di coalizione avrà la Germania dopo le elezioni del 26 settembre, per Pechino il rapporto con Berlino è destinato a farsi più difficile. Non a caso i think tank cinesi hanno messo sotto la loro lente la “autonomia strategica” promossa da Emmanuel Macron. Nel dopo-Merkel Pechino potrebbe guardare meno a Berlino e di più a Parigi, sempre puntando all’obiettivo strategico di impedire un fronte comune anti-cinese Unione europea-Stati Uniti. E sperando che il presidente francese duri quanto Merkel.

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