Il Consiglio di Stato annulla la sentenza del Tar del Lazio e ripristina il riconoscimento “de visu”: il documento di identità deve corrispondere a chi alloggia nelle strutture. Forza Italia e Lega in pressing su Meloni per evitare l’aumento dell’aliquota dal 21 al 26 percento
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Il check-in automatizzato nelle strutture adibite ad affitti brevi non è possibile. Ed è obbligatorio il riconoscimento “de visu”. È quanto ha stabilito il Consiglio di Stato nell’annullare la sentenza del Tar del Lazio dello scorso 27 maggio che aveva sospeso l’efficacia della circolare del ministero dell’Interno di novembre 2024 che per l’appunto disponeva l’obbligo di certificare la corrispondenza fra documento di identità e ospite della struttura attraverso l’identificazione diretta.
La stretta sulla verifica dell’identità
«La decisione del Consiglio di Stato che conferma l'obbligo di riconoscimento "de visu" degli alloggiati rafforza la sicurezza e chiarisce in modo definitivo le regole per tutte le strutture – dice il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi – comprese le locazioni brevi. La verifica diretta dell'identità tutela chi viaggia e chi vive nei quartieri più esposti e sostiene il lavoro quotidiano delle forze di polizia. È una pronuncia che conferma la linea sostenuta fin dall'inizio dal Viminale».
In sostanza non è possibile l’identificazione “da remoto” di chi alloggia in strutture ricettive per breve tempo ossia attraverso ricezione informatica delle copie dei documenti (da inviare alla questura) e contestuale accesso negli alloggi con codice di apertura automatizzato (il self check-in) tramite le cosiddette “keybox” all’ingresso. Una modalità che nel bypassare l’identificazione di persona non garantisce la certezza che chi alloggia corrisponda effettivamente a chi invia il documento.
Plaude Federalberghi: «Il riconoscimento “de visu” contribuisce a elevare in maniera significativa i livelli di sicurezza, a vantaggio sia degli ospiti delle strutture ricettive sia della cittadinanza, a partire dalle persone che subiscono i disagi derivanti dall'abitare nei palazzi in cui si registra un continuo viavai di persone sconosciute, dirette agli appartamenti affittati ai turisti», commenta il presidente Bernabò Bocca.
La possibilità del video collegamento
Nella sentenza c’è però un passaggio che non esclude il riconoscimento «mediante dispositivi di videocollegamento predisposti dal gestore all’ingresso della struttura purché idonei ad accertare hic et nunc l’effettiva corrispondenza tra ospite e titolare del documento di identità, esibito o trasmesso con altro canale telematico all’atto di accesso alla struttura (esempio spioncino digitale o Qr Code che faccia fermo immagine)».
Nel richiamare la circolare del ministero il Consiglio di Stato sostiene infatti che «la circolare non tocca questi aspetti né per converso li esclude categoricamente». Airbnb in una nota commenta che «il self check-in è una funzionalità utilizzata in tutto il settore turistico. Permette a ospiti e host di gestire gli arrivi in modo flessibile, adattandosi ai cambiamenti imprevisti dei piani di viaggio e consentendo di accedere in sicurezza nell’alloggio a qualsiasi orario. Gli host sono comunque tenuti a controllare l’identità degli ospiti – di persona oppure tramite dispositivi di videoconferenza in tempo reale come telefonate o videocitofoni – e comunicarle alle forze dell’ordine entro da 6 a 24 ore dall’arrivo».
Secondo la Federazione associazioni ricettività extralberghiera (Fare) «la sentenza riconosce una verità semplice: la sicurezza è fondamentale, ma non può ostacolare l’evoluzione tecnologica. Il mondo, e il turismo, sono cambiati. Se esistono strumenti di videocollegamento che garantiscono un’identificazione certa, usarli non solo è possibile, ma sensato».
Sull’aliquota fiscale tutto ancora da chiarire
Archiviata definitivamente la questione dell’accesso alle strutture si discute ancora sul tema della tassazione per gli affitti brevi. Obiettivo di Fratelli d’Italia l’aumento dell’aliquota dall’attuale 21 per cento sulla prima abitazione data in affitto (la cedolare secca approvata nella manovra 2024) al 26 per cento (già applicato dal secondo immobile in poi) per chi si appoggia alle piattaforme come Booking e Airbnb. Addirittura, in una prima versione, era previsto il 30 per cento per gli affitti oltre le tre unità immobiliari in capo allo stesso proprietario.
Una misura che stando alle stime avrebbe consentito di recuperate oltre 80 milioni di euro all'anno e fortemente difesa dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni per favorire gli affitti lunghi: «Sugli affitti brevi a mio avviso deve decidere il Parlamento se confermare o meno la norma – aveva dichiarato lo scorso 30 ottobre – Voglio solamente dire che la ratio del provvedimento non è fare cassa sul tema degli affitti, ma è favorire gli affitti alle famiglie, perché se c'è la stessa tassazione per chi affitta a un turista e per chi affitta a una famiglia, si tenderà ad affittare al turista e gli affitti per le famiglie aumenteranno. Quindi il nostro obiettivo è abbassare gli affitti per le famiglie».
All’indomani del vertice di maggioranza il ministro Matteo Salvini dichiara che «ci sono stati dei passi in avanti» e che ci sarebbe «totale convergenza su alcuni punti, cioè ad esempio di ridurre quello che era stato ipotizzato come un aumento di tasse per chi mette in affitto il suo locale».
Si sarebbe optato per il mantenimento dell’aliquota al 21 per cento fino a tre appartamenti messi in locazione (dai precedenti cinque) mentre salirebbe quella per un numero più elevato di immobili in capo allo stesso proprietario. «Su questo c'è accordo in maggioranza. Mi sembra ragionevole. Per le grandi proprietà uno sforzo in più ci sta». E anche il capogruppo di Forza Italia al Senato Maurizio Gasparri conferma la «la volontà (da parte del governo, ndr) di modificare la norma sugli affitti brevi». La prossima settimana, anche su questo punto, si terrà un nuovo vertice di maggioranza.
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