È come il dibattito sulle tasse ai balneari, le licenze dei tassisti o l’aggiornamento dei valori catastali. Anche il taglio delle cosiddette spese fiscali (tax expenditures in gergo tecnico) riaffiora ciclicamente nel dibattito politico. Se ne fa un gran parlare per qualche tempo, fino a quando l’argomento torna nel lungo elenco delle riforme alla voce «anche quest’anno ne riparliamo l’anno prossimo».

Il copione è stato rispettato alla lettera anche in questi giorni di gran polverone sui contenuti della prossima manovra finanziaria, un bla bla che il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha liquidato come «chiacchiere agostane di calciomercato». Con il governo che arranca come non mai per far quadrare i numeri del bilancio dello stato, i tecnici della maggioranza stanno passando in rassegna la lunga lista delle entrate e delle uscite.

Tra promesse elettorali, misure improrogabili e vincoli europei i margini di intervento appaiono davvero ristretti. Ed ecco, allora, che rispunta un evergreen, un ritornello che non passa mai di moda e da anni puntualmente accompagna il dibattito autunnale sulla legge finanziaria. Mancano all’appello una manciata di miliardi? Servono risorse extra per chiudere il cerchio dei conti pubblici?

Niente paura, c’è il calderone delle spese fiscali, una riserva pronta all’uso a cui attingere in caso di necessità. L’esecutivo di Giorgia Meloni, al pari di tutti quelli che l’hanno preceduto, starebbe quindi pensando di metter mano a un gigantesco magazzino che comprende centinaia di sussidi e agevolazioni d’imposta. Facile a dirsi, perché questo ginepraio di norme consente ogni anno a milioni di italiani di dare un taglio alle tasse da pagare.

È il caso, giusto per fare un paio di esempi, delle detrazioni Irpef di oneri come le spese sanitarie oppure gli interessi sui mutui per l’acquisto della prima casa. La lista delle voci che vengono genericamente classificate nella categoria delle tax expenditures è in realtà lunghissima. L’ultimo rapporto redatto da un’apposita commissione istituita in seno al Mef ne ha censite ben 626.

La torta lievita di anno in anno e a conti fatti, nel 2023, gli oneri per l’erario di questi provvedimenti ammonteranno a circa 125 miliardi, di cui 82 miliardi a carico dell’amministrazione centrale dello stato, mentre i restanti 43 miliardi pesano sul bilancio degli enti locali (regioni, comuni). Passando in rassegna questo interminabile elenco è facile arrivare alla conclusione che metter mano alla materia è politicamente molto rischioso.

Misure come quelle che riguardano i mutui prima casa o le spese mediche rappresentano un paracadute importante per milioni di famiglie: toccarle costerebbe milioni di voti. Poi ci sono molte altre agevolazioni che invece riguardano lobby potenti o grandi comprati industriali. Gli autotrasportatori, per dire, beneficiano di uno sconto sostanzioso che riguarda le accise sul gasolio. Lo stesso vale per il carburante destinato ai mezzi agricoli. Il costo complessivo di queste due misure supera i 2 miliardi.

Poi c’è il cosiddetto patent box, che sarebbe la tassazione agevolata per i redditi prodotti grazie a brevetti industriali, software protetto da copyright. In questo caso il minor gettito per le casse dello stato si aggira intorno ai 700 milioni di euro all’anno. Porta grandi benefici alle imprese anche il credito d’imposta per investimenti in beni strumentali nuovi. Secondo l’ultimo rapporto sulle spese fiscale, questo singolo provvedimento assorbe 1,3 miliardi.

Gli armatori invece godono di un’agevolazione calcolata in base alle trattenute Irpef sugli stipendi del personale di bordo. Una voce che vale oltre 200 milioni l’anno di minori incassi per lo stato. Basta questo breve elenco per comprendere che difficilmente il governo tenterà di dare un taglio a sussidi che vanno a diretto beneficio di gruppi di interesse che, se non altro, possono disporre di decine di parlamentari sensibili alle loro ragioni.

E allora, che cosa resta? In teoria l’elenco dei sussidi da rivedere, e magari eliminare, sarebbe ancora lunghissimo. Il problema, però, è che una fetta rilevante della torta complessiva delle spese fiscali finisce per alimentare decine e decine di provvedimenti in formato extra small. Sono addirittura 250 le misure che valgono ciascuna meno di 50 milioni.

Provvedimenti che assomigliano molto a mance e mancette destinate a premiare singole clientele elettorali. Non per niente nell’ultimo rapporto sule tax expenditures, pubblicato nell’autunno scorso, la commissione di esperti segnala il «prevalente utilizzo» di gran parte di questi sussidi «per finalità politiche e di scambio con i vari gruppi di interesse». Anche in questo caso l’elenco è sterminato.

Si va dalle esenzioni d’imposta per le mance ai croupier dei casinò, all’applicazione dell’Iva ridotta al cinque per cento sui tartufi freschi o refrigerati, la «detassazione ai fini Irpef degli emolumenti percepiti da docenti e ricercatori che rientrano in Italia per svolgere la loro attività lavorativa», l’esclusione, sempre ai fini Irpef, dei proventi dell’apicoltura «condotta da apicoltori con meno di 20 alveari in comuni classificati come montani». Godono di un trattamento di favore anche «i dipendenti italiani di enti o società controllate dal Vaticano», che non pagano l’Irpef.

Va da sé che rivedere uno per uno decine di agevolazioni di questo tipo è un lavoro che richiederebbe mesi. E mal si adatta alle esigenze di un governo che deve fare cassa in fretta. D’altra parte, la maggioranza di centrodestra si è mossa finora in direzione esattamente opposta alla riduzione delle spese fiscali.

In questa categoria è compresa per esempio anche l’estensione della flat tax per i lavoratori autonomi fino a 85 mila euro di reddito dichiarato, che l’anno prossimo potrebbe portare a un minor gettito fino a 900 milioni. A questa somma a cui vanno aggiunti altri 900 milioni per effetto dell’introduzione della cosiddetta flat tax incrementale. Si conferma così una vecchia regola: i favori fiscali sono costi da tagliare fino a quando non danno una mano alla tua base elettorale.

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