Oggi in Europa tutto è cambiato. Sembrano lontani, eppure sono così vicini, i tempi in cui al centro dell’attenzione stavano le politiche di austerity, le discussioni sullo “zero virgola” in materia di deficit e rapporto debito/Pil, quelle sull’euro e i suoi limiti, quando la scelta fatta da Mario Draghi con il suo impegnativo «whatever it takes» salvò la moneta comune ed evitò una crisi esiziale. Con la crisi pandemica l’Europa ha voltato pagina.

Dopo qualche momento iniziale di preoccupante incertezza, la strada imboccata è quella giusta anche se l’Europa, messa in grande difficoltà dalla crisi del 2008-2013, dai cambiamenti legati alla globalizzazione e anche dall’uscita del Regno Unito, si è trovata a dover prendere decisioni di enorme difficoltà di fronte alla crisi da coronavirus. È un’«Europa anemica», in termini di crescita, produttività e governance, quella che si è trovata a questo tornante della storia e che, tuttavia, sta mostrando una volta di più una grande capacità di ripensare se stessa.

Rivitalizzare l’Europa si può e si deve fare, evitando però di pensare che la soluzione sia dietro l’angolo e che basti superare la crisi pandemica per trovarsi puntuali a quest’appuntamento. La spinta per farlo nasce dall’accresciuta consapevolezza che in un mondo sempre più globale non si può prescindere dall’Europa e che, superata la contrapposizione di principio tra sovranisti e non, l’Europa è un riferimento essenziale oltre che necessario.

Senza precedenti

Nell’emergenza sanitaria l’Ue ha messo in campo misure e strumenti senza precedenti per affrontare la crisi che ne è seguita. Ha sospeso sia le regole sul debito sia quelle sugli aiuti di stato alle imprese, permettendo un’immissione rapida di liquidità tanto nelle casse degli stati membri quanto alle imprese e alle persone. Ha, inoltre, eliminato ogni condizionalità ai prestiti del Mes per le spese sanitarie, dirette e indirette, dei paesi Ue, fino al 2 per cento del proprio Pil.

La Commissione ha preso un forte impegno per l’occupazione attraverso il sostegno temporaneo (Sure) alle casse integrazioni nazionali con prestiti ai governi fino a 100 miliardi complessivi e la Bce ha varato, dopo alcune esitazioni iniziali, un piano di acquisti di dimensioni enormi per la storia Ue, per oltre mille miliardi di titoli pubblici e privati (programma Pepp).

Ma si è andati ben più in là con il Recovery plan che prevede un grande programma di spesa per la fase della ricostruzione (prevede finanziamenti per 672,5 miliardi di euro ai paesi, 360 come grant e 312,5 come prestiti) che sarà legato al Bilancio europeo (Next generation Ue), senza contare gli interventi della Banca europea degli investimenti (Bei) con prestiti per investimenti alle imprese per 200 miliardi sulla base di garanzie pari a 25 miliardi.

Demografia e welfare

La sfida maggiore è quella epocale e del tutto inattesa della pandemia che, pur affrontata immediatamente ha fatto apparire minori le sfide globali che l’Europa deve comunque affrontare. A cominciare da crisi demografica e migratoria, conflitti commerciali, conseguenze della globalizzazione, cambiamento climatico e esigenze ambientali.

L’invecchiamento della popolazione associata al cambiamento tecnologico sta portando conseguenze importanti in termini di domanda e offerta di lavoro. È diminuita l’occupazione nel manifatturiero ed è aumentata la domanda di lavoratori più qualificati con conseguenze dirompenti su ineguaglianze e welfare. Assistiamo, allo stesso tempo, al mancato aumento della produttività a dispetto dei grandi progressi della tecnologia e dell’aumento degli investimenti in intangibles quali software e intelligenza artificiale. In questo contesto dovremo usare nuovi strumenti di sostegno per l’occupazione e per la riqualificazione del capitale umano e così affrontare il profondo cambiamento del mercato del lavoro già in essere.

La dinamica demografica ha poi un ruolo decisivo sia rispetto alle politiche migratorie, che riguardo la capacità degli stati di provvedere al sostegno sociale di una popolazione che invecchia.

La politica industriale

C’è un deficit d’innovazione nell’economia della Ue. È impressionante il divario tra le giovani imprese innovative negli Usa ed in Europa. E il rischio che la Ue possa uscire perdente dallo scontro competitivo che si prospetta a livello globale sta a fondamento del cambiamento di policy in atto nell’Unione che per la prima volta adotta un’opzione esplicita di politica industriale oltre a quella in materia di concorrenza. Il vincolo d’impiego del 37 per cento a favore delle tecnologie green e del 20 per cento a favore di quelle digitali è legato all’idea che occorre puntare su un aumento della produttività.

Reti in fibra e 5G sono decisive per lo sviluppo a ragione dell’effetto trasformativo delle tecnologie sulla maggior parte dei settori dell’economa.

In fondo l’idea che sta a fondamento del grande sforzo del Recovery and resilience fund è che bisogna tenere assieme, anche finanziariamente, tutti i paesi (Italia compresa), per realizzare uno scenario in cui mentre si punta sulle nuove tecnologie, la domanda interna continui ad alimentare la crescita.

La visione geopolitica del mondo ci porta a riflettere sugli effetti del riaccorciamento delle catene del valore che sta avvenendo anche a ragione dell’aumento di rischi e incertezze nella pandemia. La modifica delle catene del valore segnala che non ci sono soltanto i grandi del mondo (a cominciare da Cina, Usa e Giappone) ma sono ormai importanti i nuovi competitor globali come i paesi del sud est asiatico, e le nuove aggregazioni di libero scambio quale la recente Rcep, l’accordo commerciale con baricentro cinese, tra Asean, Australia, Cina e Giappone.

L’Europa si deve confrontare con aree che disegnano le “nuove fabbriche del mondo”. È perciò che l’Ue deve guardare al Mediterraneo come sua area di scambio privilegiata. È una scelta che porta vantaggi non solo al nostro Mezzogiorno, ma anche all’intera Europa. Ci sarebbe maggiore sviluppo con le nuove rotte del commercio e la partecipazione dei paesi della sponda sud alle grandi reti e ai collegamenti di energia solare da realizzare nelle aree desertiche del Sahara.

La pandemia sta portando a un aumento del ruolo dello stato nell’economia che seppure non è da esorcizzare deve essere coniugato con concorrenza e mercato. Non è lo stato imprenditore che può risolvere i problemi della crisi economica che stiamo attraversando. Non è l’intervento a salvaguardia della zombie economy che ci può salvare.

Nei prossimi anni vivremo l’esperienza schumpeteriana della distruzione creatrice, vedremo crescere i non performing loans ma non per questo dovremo farci trascinare verso la scelta di un sostegno indiscriminato a chi è in crisi ma dovremo selezionare le imprese in crisi temporanea e capaci di riprendersi dalle altre che non ce la faranno. E dovremo perciò predisporre gli strumenti necessari a sostenere i perdenti della pandemia. La Commissione europea, consapevole peraltro del rischio di un aumento permanente del capitale pubblico nelle imprese, ha fissato con il temporary framework regole precise che disincentivano i capitali pubblici dal rimanere troppo a lungo nelle imprese.

L’Europa e l’Italia

E l’Italia? Deve affrontare una nuova fase in cui è necessario affrontare le sfide che il mondo prospetta a noi e all’Europa. Il governo ha di fronte a sé una sfida assai impegnativa il cambiamento di passo che è necessario realizzare quando si tratta di procedere per “progetti” dove c’è un rapporto esplicito tra strumenti e obbiettivi. Il risultato in termini di aumento di crescita, produttività e benessere si potrà ottenere non solo attraverso il Next generation, che ne può rappresentare solo l’innesco, ma soprattutto attraverso la creazione del clima adatto e lo stimolo in materia di competitività e investimenti per il settore privato dell’economia.

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