Cambiare il lavoro per cambiare l’Italia. Una strategia per il lavoro è una delle chiavi centrali per la ripartenza decisa e di lungo periodo del paese. Di fronte all’aumento dei prezzi e dell’inflazione, alla crescente lievitazione delle diseguaglianze sociali, alle difficoltà dei giovani a trovare un’occupazione adeguata e alla permanente complessità per le imprese a trovare personale, occorre ripensare radicalmente il sistema del lavoro e, soprattutto, mandare in soffitta la visione neoliberalista che ha dominato in questi ultimi vent’anni.

Dopo quattro lustri di rincorsa della flessibilità e deregolamentazione il risultato non è quello di una società più dinamica, in cui è più facile passare da lavoro a lavoro, in cui le possibilità sono cresciute per tutti, ma ci troviamo di fronte a una realtà più incerta e precarizzata, che non garantisce capitale umano alle imprese e ha costruito, al contempo, un tetto di cemento armato sulla testa dei giovani che vogliono farsi una famiglia, costruirsi una vita e un futuro.

Il quadro della relazione tra il lavoro e gli italiani è fotografato dall’istantanea che ogni mese scatta What Worries the World di Ipsos, l’indagine che viene realizzata in 27 paesi.

I dati di giugno 2022 confermano, per l’ennesima volta, che l’Italia è in vetta alla classifica della paura di perdere il posto di lavoro (48 per cento). Come noi si colloca la Spagna (49 per cento) e peggio solo il Sudafrica (63 per cento). Il dato italiano è particolarmente significativo perché svetta la lontananza rispetto agli altri big europei. In Germania l’apprensione per il proprio status occupazionale riguarda solo il 10 per cento. In Gran Bretagna è al 12 per cento e in Francia è al 14 per cento. Una distanza che porta alla luce quanto il tema occupazionale, in termini di stabilità e in termini di qualità del lavoro e dello stipendio, resti una delle peculiarità negative del nostro paese che abbisogna di nuove risposte decise, se si vuole rimettere in moto la macchina dell’economia nazionale. Sul futuro del lavoro gli italiani hanno alcune idee abbastanza chiare.

Il 54 per cento del paese si schiera per una netta riduzione delle forme contrattuali a tempo determinato e per rendere più onerosi per le imprese i contratti a termine. Il 70 per cento dell’opinione pubblica preferirebbe avere minori sussidi di disoccupazione ma, al contempo, avere una maggiore stabilità contrattuale e a lungo temine. Una strategia per il lavoro dovrebbe prevedere, per gli italiani, la definizione di uno stipendio minimo (46 per cento), disincentivi per i contratti a tempo determinato (33 per cento), nuovi strumenti per facilitare il passaggio da lavoro a lavoro (26 per cento), nonché l’introduzione di nuovi incentivi economici temporanei volti al mantenimento dell’occupazione nelle imprese in difficoltà (24 per cento). L’idea dello stipendio minimo di base piace soprattutto ai giovani under trenta (49 per cento) e alle persone appartenenti ai ceti popolari (47 per cento). A questi due segmenti piace anche l’ipotesi di nuovi incentivi temporanei alle imprese per mantenere stabili i livelli occupazionali in caso di difficoltà.

A incrementare le apprensioni dell’opinione pubblica, sul fronte lavoristico, ci sono anche le innovazioni tecnologiche, la robotica e l’inserimento dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi. Innovazioni che, per quanto necessarie e utili, vengono vissute dal 68 per cento del paese come strumenti che possono ridurre le opportunità lavorative per le persone. In questo caso a essere più preoccupate sono le donne (73 per cento) e i ceti popolari (72 per cento). Prima di innescare perniciosi fenomeni luddistici o percorsi di espulsione di massa dai processi produttivi, occorre, per il nostro paese, ripensare complessivamente la propria strategia sul lavoro.

Una vision che, da un lato, dovrebbe cercare di contenere le pulsioni neo-liberiste che spingono per nuova flessibilità, che restano ancorate alla rincorsa del basso costo del lavoro e che intravvedono nella sostituzione, a soli fini profittevoli, delle persone con le macchine le propria politica di crescita; mentre, dall’altro lato, dovrebbe mettere in piedi una strategia di lungo periodo per ridare certezza, valore, riconoscimento e dignità al lavoro, arginando salari bassi, saltuarietà e discontinuità lavorativa.

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