Perdere il posto di lavoro non è mai una bella notizia. In un paese come l’Italia, con alta disoccupazione, salari stagnanti e pochi settori davvero in crescita, la situazione rischia di essere ancora più drammatica. Questo timore è confermato da un recente studio di Antoine Bertheau, Edoardo Maria Acabbi, Cristina Barcelo, Andreas Gulyas, Stefano Lombardi e Raffaele Saggio, raccontato in un articolo su lavoce.info.

Utilizzando dati da sette diversi paesi europei, gli autori hanno mostrato l’impatto sull’occupazione e sui redditi della perdita del lavoro dovuta alla chiusura dell’attività o a un licenziamento collettivo, in modo da isolare eventuali licenziamenti individuali che potrebbero essere causati da ragioni legate al comportamento del singolo lavoratore.

Secondo le stime degli autori, un anno dopo la perdita del lavoro, tre lavoratori licenziati su dieci non hanno trovato un nuovo impiego, mentre il reddito medio si riduce di quasi il 40 per cento. La situazione migliora, ma rimane comunque drammatica, con il passare del tempo: a tre anni dal licenziamento, un lavoratore su cinque non ha ancora trovato un nuovo impiego, un valore che rimane più o meno costante anche a cinque anni dal licenziamento. Risultati simili per il reddito, che a cinque anni dal licenziamento rimane ancora in media inferiore del 27 per cento.

Per quanto questi dati non siano particolarmente rassicuranti, si potrebbe pensare che questo andamento non sia molto diverso da quello che si osserva in altri paesi. Non è così: l’Italia, insieme ad altri paesi dell’Europa meridionale, come Spagna e Portogallo, registra infatti perdite in termini occupazionali e di reddito ben peggiori rispetto a quelle di altri paesi europei, in particolare quelli del Nord Europa. Come mostrato in figura, il crollo è di gran lunga superiore rispetto a paesi come Danimarca e Svezia. Il divario, inoltre, persiste nel tempo.

Non è solo un problema di pochi posti di lavoro

Per quale motivo l’impatto del licenziamento è molto più forte in Italia? Per prima cosa, la disoccupazione è decisamente più elevata nel nostro paese rispetto al Nord Europa, e, a parità di posti di lavoro disponibili, diventa più complicato trovare un nuovo impiego se più persone lo stanno cercando nello stesso momento. La spiegazione, però, non può essere solo questa. Gli imprenditori che cercano dipendenti ci sono, come mostra per esempio il Bollettino Annuale di Excelsior – Unioncamere per il 2021, che aveva previsto assunzioni da parte del 61 per cento delle imprese italiane, per un totale 4 milioni e mezzo di figure professionali ricercate. Questi dati tendono a sovra rappresentare le reali necessità da parte delle imprese (si tratta spesso dei “desideri” degli imprenditori più che delle reali assunzioni richieste ed effettivamente finalizzate), ma danno un’idea del fatto che in Italia ci sia comunque spazio per trovare un nuovo impiego dopo aver perso quello precedente. Eppure si registra questo divario.

Il ruolo delle politiche attive

Un altro fattore potrebbe essere quello delle modalità attraverso cui si ricerca un nuovo lavoro. Gli italiani, infatti, continuano a utilizzare tecniche piuttosto datate e basate su canali informali. Secondo il Rapporto Istat sul mercato del lavoro italiano per il quarto trimestre 2021, rivolgersi a parenti, amici e conoscenti per trovare un lavoro rimane la pratica più diffusa tra i disoccupati per la ricerca di un impiego (il 79,4 per cento intraprende questa strada). Il secondo metodo più diffuso è quello dell’invio del proprio curriculum con una candidatura spontanea. Anche questo, se si prova a chiedere a chiunque abbia cercato lavoro negli ultimi anni, non è un metodo particolarmente efficace, eppure viene utilizzato dal 66,5 per cento dei disoccupati. Solo un disoccupato su tre risponde ad annunci di lavoro e solo uno su cinque si rivolge a un centro per l’impiego. Nei paesi Ocse, in media, il numero di disoccupati che si rivolge a un centro per l’impiego pubblico è esattamente il doppio: 40 per cento.

Perché questa differenza? La colpa sta nel mezzo: da una parte, i lavoratori italiani non sono abituati ad usare canali di ricerca formali e quindi tendono a non frequentare quei servizi, pubblici o privati, che potrebbero aiutarli nell’orientamento al lavoro; dall’altra, la qualità di questi servizi è di gran lunga inferiore rispetto a quella di altri paesi avanzati. L’Italia è infatti tra i paesi che spendono meno in proporzione al Pil pro capite per le politiche attive del lavoro, ossia tutti quegli strumenti, dall’attività di orientamento ai corsi di formazione, che aiutano in maniera attiva il lavoratore a trovare un nuovo impiego. In un mondo che cambia sempre più in fretta, diventa fondamentale aggiornare i lavoratori perché acquisiscano le competenze necessarie per reinventarsi e trovare un impiego in un settore in crescita. In Italia, però, accade sempre meno. Lo dimostra il fatto che, a parità di tasso di disoccupazione, il tasso di posti vacanti registrato dall’Istat, ossia la percentuale di offerte di lavoro per cui non è ancora stato trovato un candidato da assumere, sia diventato strutturalmente più alto negli ultimi anni. Che cosa significa? Che diventa sempre più difficile trovare profili professionali adeguati alle caratteristiche ricercate dagli imprenditori. Non a caso, a parte il settore della ristorazione e dell’ospitalità, da sempre caratterizzato da un forte turnover, i settori in cui il tasso di posti vacanti è più elevato sono quelli che richiedono competenze specifiche, come quello delle attività professionali scientifiche e tecniche.

Tornando allo studio di Acabbi, Lombardi e Saggio, dopo aver notato che il divario nella perdita occupazionale e di reddito tra lavoratori Nord e Sud europei non era dovuta a caratteristiche individuali, poiché i vari gruppi analizzati erano di fatto assimilabili, gli autori hanno indagato eventuali fattori istituzionali che potrebbero spiegare queste differenze. Tra gli aspetti analizzati, per esempio, il diverso livello di protezione dell’occupazione dal punto di vista legislativo e la diversa percentuale di lavoratori iscritti al sindacato nei vari paesi. L’unico fattore che sembra davvero fare la differenza, però, è proprio la spesa in politiche attive del lavoro. Secondo le loro stime, più un paese spende in politiche attive, minore è l’impatto del licenziamento e più rapido è il ritorno a un nuovo impiego dopo aver perso il precedente.

Nonostante il tema sia discusso ormai da anni e nonostante le varie riforme del settore dei servizi per l’impiego, i soldi messi a disposizione continuano sempre a essere troppo pochi. Certo, spendere non basta, bisogna anche indirizzare le risorse verso gli strumenti e le competenze necessarie. L’assunzione dei navigator per trovare un lavoro a chi riceve il Reddito di Cittadinanza, per esempio, non rientra tra le migliori politiche per il lavoro. Per aiutare i disoccupati, infatti, non basta una laurea, ma occorrono competenze specifiche da utilizzare per accompagnare il candidato verso un percorso di orientamento, di formazione e infine di inserimento nel mercato del lavoro.

Finché non si stanziano le risorse necessarie per finanziare il tutto, però, parlare di cosa si deve o non si deve fare non serve a molto.

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