Il fenomeno americano della Grande Dimissione generata dalla pandemia è talmente vasto e duraturo da avere reso insufficienti le spiegazioni contingenti ed emergenziali. Il grandioso movimento di abbandono e spostamento degli americani verso nuovi posti (e modalità) di lavoro non è soltanto una reazione alla crisi che ha travolto il mondo.

I numeri sono impressionanti e il grande datificatore Filippo Teoldi illustra sinteticamente la tendenza a suon di grafici. Un esempio: nel solo mese di agosto il 7 per cento dei lavoratori dell'industria dell'ospitalità e della ristorazione ha lasciato il lavoro in cerca di nuove opportunità, che peraltro abbondano, visto che le offerte hanno raggiunto negli ultimi tempi picchi mai visti.

Si potrebbe leggere la situazione come una vecchia vicenda di domanda e offerta, oppure come la riproposizione di un evento tipico del mercato del lavoro americano: quando c'è una crisi, molti s'ingegnano per acquisire nuove competenze per riposizionarsi a livelli più alti e redditizi quando la tempesta sarà passata.

C'è però un'ipotesi interpretativa più profonda: la pandemia ha aperto una crepa nell'ideologia arciamericana del "workism". Che cos'è il workism? Prendiamo la definizione del giornalista dell'Atlantic Derek Thompson: «È la convinzione che il lavoro non sia soltanto necessario alla produzione economica, ma sia anche il cuore dell'identità e dello scopo della vita di una persona; ed è anche la convinzione che tutte le politiche che promuovono il benessere umano debbano sempre incoraggiare più lavoro».

Il workism, insomma, è quella cosa per cui le scuole americane propongono ai bambini di tre anni il test per le classi differenziali e i genitori li preparano come se dovessero fare l'esame di meccanica razionale, sapendo che dall'esito dipenderà il loro futuro, da misurare rigorosamente in termini di successo professionale e reddito.

In una delle profezie più note, Keynes diceva che i suoi nipoti avrebbero avuto una settimana lavorativa da 15 ore e che il problema principale delle generazioni future sarebbe stato quello di occupare il tempo libero. La profezia non si è avverata, ma l'economista aveva ragione quando diceva che il reddito pro-capite nei paesi industrializzati avrebbe raggiunto livelli che avrebbero reso teoricamente possibile una riduzione drastica delle ore di lavoro.

Cos'è successo fra la teoria e la pratica? Il workism, appunto, cioè il lavoro è diventato ideologia e fine in sé, veicolo di realizzazione umana e idolo unico da adorare mentre tutti gli altri idoli tradizionali tramontavano. Risparmiamoci qui il solito sermone sul rapporto fra protestantesimo, successo professionale e ricchezza.

Ricordiamo però cosa diceva Samuel Huntington nel libro troppo spesso dimenticato Who Are We?: «Gli americani lavorano di più, fanno vacanze più brevi, ricevono meno sussidi per la disoccupazione e la disabilità e vanno in pensione più tardi rispetto agli altri paesi di ricchezza paragonabile», tutte faccende che sono parte fondante dell'identità americana, non una mera descrizione dell'esistente.

L'idea dietro ai dati di oggi è che il workism sia in crisi, evento che, se verificato, conterrebbe un effetto molto più interessante e profondo di una pur notevole migrazione lavorativa.

Se i critici del workism vedono giusto siamo di fronte a un cambiamento importante: gli americani dedicano più tempo alla famiglia, allo svago, alle attività improduttive di qualunque genere, possibile preludio a un cambiamento nella classifica dei valori. Che la Grande Dimissione sia un segno del fatto che gli americani iniziano a credere un po' meno nel dio del lavoro?

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