In una delle più note vignette di Altan, uno dei due personaggi afferma: «Poteva andare anche peggio». L’altro, laconicamente, replica: «No». 

Le condizioni del lavoro in Italia porterebbero a dar ragione a quest’ultimo personaggio. Il tasso di disoccupazione è circa l’8 per cento, e oltre il 22 per cento per le persone fra i 15 e 24 anni. Quasi il 60 per cento dei disoccupati non ha avuto un impiego nell’ultimo anno. E più lungo è un periodo passato senza lavorare, più è difficile reimpiegarsi.

L’11,7 per cento dei lavoratori (circa 2,6 milioni) è “tecnicamente” povero, cioè ha un salario inferiore al 60 per cento di quello mediano. L’alta incidenza di lavoratori autonomi (21,8 per cento della forza lavoro), invece di essere un segnale di vitalità imprenditoriale, è sempre più dovuta alle “false partite Iva”, ovvero lavoratori di fatto dipendenti, cioè legati a un particolare committente, ma con minori tutele e maggiori rischi.

Come hanno argomentato Maurizio Franzini e Michele Raitano su questo giornale, questa individualizzazione genera precarietà, redditi bassi, ed erode il valore aggiunto di una educazione superiore. Negli ultimi anni si è registrata una crescita dell’occupazione e dei contratti a tempo indeterminato, ma a discapito di un calo sensibile dei salari reali.

Qualora non bastassero i dati, le testimonianze di sfruttamento sul lavoro, impegni contrattuali non onorati, stipendi miseri e tutele inesistenti, sono giornaliere. Questa è spesso la realtà dietro il piagnisteo periodico sulla mancanza di lavoratori, sui giovani che non si vogliono “spaccare la schiena”, e sul reddito di cittadinanza che disincentiva il lavoro.

Ora che la polvere di polemiche riguardo al decreto Primo maggio del governo si è un po’ posata, è forse possibile valutarlo e interpretarlo. Ma conoscere le condizioni del lavoro, come riassunto qui sopra, è il necessario punto di partenza. E altrettanto importante è collocare queste riforme all’interno della più generale visione del lavoro che esse riflettono.

Peggiorare le condizioni

Il governo Meloni sembra impegnato a rendere le condizioni del lavoro ancora peggiori. Nelle parole, come quelle del ministro Francesco Lollobrigida secondo cui i percettori del RdC dovrebbero lavorare nei campi durante la stagione del raccolto; o quelle della stessa premier, che si è più volte votata a “non disturbare” chi fa impresa. E nelle scelte del decreto Primo maggio, tra cui la cancellazione di misure universali di contrasto alla povertà; il venire meno del sussidio per chi non accetti una proposta di lavoro a qualunque distanza da casa, o chi, pur essendo considerato “occupabile” per età o composizione familiare, di fatto non lo è; e l’inserimento di nuove, generiche causali per prolungare il limite per i contratti a tempo determinato. Il minimo e temporaneo taglio al cuneo fiscale è un nonnulla in un paese che non ha (solo) un problema con le tasse sul lavoro, ma con una produttività stagnante da quasi trent’anni.

Non è però certo dalla destra, rappresentante degli interessi di altre classi, e che predilige un approccio corporativo e non universalistico a questioni economiche e sociali, che ci si dovrebbe aspettare la tutela e promozione dei lavoratori.

Per lungo tempo ormai, tuttavia, anche la sinistra in Italia è stata assente su questi temi, alienandosi il sostegno specialmente delle classi meno abbienti. Studi recenti mostrano che il Partito democratico è non solo votato soprattutto dalle fasce più istruite della popolazione, come altri partiti progressisti negli ultimi trent’anni, ma anche dalle più ricche. Il voto delle classi popolari si è spostato altrove, e sempre più spesso questo altrove è l’astensione – un danno per la sinistra ma prima ancora per la qualità della democrazia.

Il resto d’Europa

E pensare che sia in politica, sia nella ricerca accademica c’è stato un radicale ripensamento nei confronti del lavoro. La ministra spagnola del Lavoro Yolanda Diaz ha proposto una riforma che sta dando tangibili risultati nel contrasto al precariato.

Invece di incentivare semplicemente contratti a tempo indeterminato, la legge fissa regole rigide per il ricorso ai contratti a termine; un’eccezione e non la regola, insomma. In Germania, il riformato strumento di sostegno al reddito (Hartz IV) prevede che i beneficiari non saranno più indirizzati verso il primo lavoro disponibile, ma collaboreranno con i centri per l’impiego in un percorso di formazione e lavoro a tempo indeterminato. L’opposto delle intenzioni del governo italiano.

La ricerca di alcuni dei più prominenti economisti sempre più identifica nei “good jobs” uno dei punti cruciali che ha permesso la rapida crescita durante i cosiddetti trent’anni gloriosi (1950-1980). Si tratta di occupazioni non solo ben retribuite, ma anche stabili, con tutele, prospettive di carriera e il giusto bilanciamento tra vita privata e lavorativa.

Una politica economica che privilegia il capitale rispetto al lavoro, invece, per esempio attraverso una tassazione più vantaggiosa, riduce gli incentivi delle imprese a investire in buoni lavori. Studi recenti mostrano inoltre che una presenza più forte del sindacato porta a una riduzione delle diseguaglianze.

Economisti come Thomas Piketty sostengono che la partecipazione dei lavoratori al governo delle imprese, come in Germania, contemperi meglio i diversi interessi nei luoghi di lavoro e non solo. Dare più voce ai lavoratori in una fase in cui le nuove tecnologie potrebbero sostituire molte mansioni è quanto mai importante per garantire non solo l’attività d’impresa, ma anche il benessere collettivo e la coesione sociale. E già da tempo, come ricordano Andrea Roventini e Stefano Ungaro in un recente contributo sul Mulino, sappiamo che l’istituzione di un salario minimo non riduce l’occupazione, ma anzi può aumentarla, e anche favorire l’innovazione (ne ha discusso anche Guido Fontanelli su queste pagine). 

Ma la connessione fra la ricerca accademica e l’azione legislativa non è immediata. La politica risponde anche (e per fortuna) a logiche e sentimenti che vanno oltre l’analisi razionale dell’evidenza; alla sua base c’è una visione di un certo fenomeno, una direzione ideale, identificabile rispetto ad altre, e credibile.

Le parole e le scelte di questo governo sono l’esito coerente di una precisa concezione del lavoro. Una visione secondo la quale il lavoro è  una “concessione”, un’offerta che il “datore” fa al dipendente che, grato, deve accettare qualunque condizione. Una concezione che unisce sorprendentemente (e pericolosamente) il caporalato vecchio e nuovo delle campagne, come narrato da Rocco Scotellaro nel secolo scorso e dal compianto Alessandro Leogrande in anni recenti; e il trattamento di molti lavoratori nei nuovi settori dell’economia digitale e delle piattaforme, dai “rider” con paghe da fame e nessuna tutela, ai “quadri” sfruttati all’estremo dietro una narrazione di flessibilità, creatività e uffici in mezzo al verde. E che finisce per generare una guerra al ribasso fra poveri, tra ultimi e penultimi, un vero obiettivo strategico della destra.

Cultura alternativa

Al di là delle singole proposte, è fondamentale quindi definire una cultura del lavoro alternativa, che vada oltre le logiche di scambio e potere e riconosca che il lavoro è anche fonte di senso, integrazione e coesione sociale; che la tutela del lavoro significa dare più opportunità a tutti e tutte, come implica l’art. 1 della Costituzione; che la coerenza con questi principi è fondamentale per valutar qualsiasi riforma, e la mancanza di queste prerogative e principi conduce a una società più diseguale e polarizzata, e a persone più sfiduciate e infelici che rimangono ai margini della vita pubblica o si affidano, di volta in volta, a chi fa promesse irrealizzabili e non ha ancora governato.

Più le persone sono inadeguate a detenere una certa posizione di potere, più ci si arroccano. C’è quindi da aspettarsi che l’attuale maggioranza farà di tutto per rimanere al loro posto. C’è quindi tempo per iniziare, parallelamente a un’attività di opposizione provvedimento per provvedimento, una riflessione profonda sul tema che più caratterizza la sinistra e che, a dispetto di qualche narrazione interessata, è più attuale che mai. E se è vero che c’è tempo a disposizione, e di tempo c'è bisogno, è altrettanto vero che ogni giorno che questa riflessione viene rimandata è un giorno perso, e una perdita per tutti.

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