People have the power to redeem the work of fools – il popolo ha il potere di redimere l’opera dei pazzi, così canta Patty Smith. Guardando i dati sull’affluenza al voto nelle ultime elezioni amministrative, viene da chiedersi se davvero i cittadini ancora esercitino in pieno questo potere. È preoccupante che sempre meno persone vadano a votare, e più in generale partecipino e siano coinvolte nel dibattito politico?

Diversi segnali indicano che molti politici, a parte qualche battuta di circostanza sul tema, non siano poi così interessati al tema.

Un tema secondario?

Commentando il rapido raggiungimento delle cinquecentomila firme a sostegno del referendum sulla legalizzazione della cannabis grazie anche alla possibilità di usufruire della firma elettronica, per esempio, l’onorevole Calenda ha paragonato l’istituto referendario così riformato alla piattaforma Rousseau. In una recente intervista, poi, ha sostenuto che i cittadini votano come se fossero al Grande Fratello. Durante la formazione del secondo governo Conte e del governo Draghi diversi esponenti politici, specie di area liberale, ai dubbi sull’opportunità di fare cambiamenti così radicali senza passare per il voto, rispondevano che la natura rappresentativa e parlamentare della democrazia era tale per cui tutto ciò che fosse deciso in parlamento (incluso, di fatto, ridimensionare il ruolo del parlamento stesso) era legittimo e quindi politicamente accettabile.

C’è anche chi propone la permanenza di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio dopo le elezioni del 2023, indipendentemente dall’esito del voto o dall’eventuale impegno attivo del primo ministro in campagna elettorale. Qualcuno ricorderà anche il senatore Renzi catalogare l’affluenza al voto sotto il 40% per le elezioni regionali in Emilia Romagna nel 2014 come tema secondario rispetto alla vittoria del suo candidato.

Queste posizioni richiamano una visione della democrazia liberale “classica”. Come ci ricordano diversi storici (tra cui Jill Lepore e Gordon Wood), per esempio, i padri fondatori degli Stati Uniti d’America cercarono in diversi modi di limitare il potere diretto della popolazione sulle scelte politiche. Il Collegio dei grandi elettori per la nomina del Presidente rappresentava un “filtro” tra la volontà della maggioranza dei cittadini e la scelta finale, nel caso in cui il popolo avesse scelto in prima istanza un candidato considerato, per esempio, troppo estremo. La stessa Costituzione federale fu anche una risposta alle costituzioni già redatte in singoli stati, considerate inadeguate perché scritte da persone non all’altezza, almeno secondo i padri costituenti.

Una diversa visione, all’apparenza antitetica, del ruolo della partecipazione popolare alle decisioni politiche è quella avanzata della destra radicale. Da un lato, il richiamo al “popolo” e alla sua diretta volontà è un motivo ricorrente, che fa leva su sentimenti anti-élite e di sfiducia verso le istituzioni politiche ed economiche del capitalismo democratico. La politica, si sostiene, deve ripartire “dal basso”, dalle esigenze della “maggioranza silenziosa”, senza timori reverenziali verso minoritarie classi dirigenti. Dall’altro lato, questa filosofia prevede la presenza di un leader forte, carismatico, che guidi il popolo spesso inteso come corpo indistinto. La partecipazione popolare, insomma, è importante proprio in quanto crea la massa da guidare. La qualifica di “populisti” per questi movimenti e’ inaccurata. Meglio parlare di movimenti “demagogici”, nei quali un capo (dal greco agogos) guida il popolo (demos).

Queste due visioni condividono dunque una diffidenza di fondo verso la capacità dei cittadini di esprimersi e partecipare alla cosa pubblica se non tramite significative mediazioni. Non sorprende, forse, che in Italia e non solo sia i partiti vicini al liberalismo ottocentesco, sia quelli demagogici, siano spesso “personali”, o che si appellino una tecnocrazia considerata obiettiva e apolitica. Tra la tecnocrazia digitale e il capo carismatico ha orbitato, almeno fino al 2020, anche il Movimento 5 Stelle.

Partecipazione è inclusione

Stupisce invece che da sinistra siano mancate espressioni di grave preoccupazione, e non vi siano proposte su come affrontare il problema della scarsa partecipazione democratica. L’equità e inclusione economica, sociale e civile sono strettamente connesse all’inclusione politica. La percezione che la distribuzione dei benefici della globalizzazione e della rivoluzione digitale sia iniqua e difficilmente reversibile non genera solo sfiducia verso un tipo di ordine economico, ma anche nell’ordine politico, la democrazia liberale, che associato al capitalismo aveva promesso di migliorare le condizioni di tutti i cittadini e, aspetto fondamentale, di dare a tutti una opportunità reale di successo e di effettiva libertà.

La motivazione non solo a votare, ma più in generale a partecipare alla vita pubblica, si riduce maggiormente per le fasce più vulnerabili di una comunità. I dati sull’affluenza al voto nelle grandi città, per esempio, mostrano che la percentuale dei votanti è minore nelle zone più periferiche.

La bassa partecipazione delle classi popolari riduce, a sua volta, l’incentivo dei partiti a elaborare programmi che considerino i bisogni e le preoccupazioni di queste classi. Diventa più efficace, per il successo elettorale, rivolgersi ai ceti medio-alti e competere per il loro voto. La tendenza generale dei partiti di privilegiare, nel processo legislativo, le istanze della popolazione più agiata anche a parità di partecipazione al voto di tutte le classi sociali, che il politologo Larry Bartels ha documentato nel suo saggio “Unequal Democracy”, non può quindi che diventare ancora più forte se a votare sono soprattutto i ceti medio-alti. Peraltro, il processo di “moderazione” da parte dei partiti progressisti e socialdemocratici è fallimentare dal punto di vista elettorale, come emerge da studi recenti.

Politiche di maggiore inclusione economica e sociale (riforma fiscale fortemente progressiva, salario minimo e reddito universale, rafforzamento della rappresentanza sindacale, investimenti in scuola e sanità pubbliche, e cosi via) sono un veicolo essenziale per rigenerare fiducia nel capitalismo democratico. Ma in aggiunta a queste politiche “dall’alto”, vari studiosi hanno elaborato in anni recenti proposte per un coinvolgimento più diretto e diffuso della popolazione nel processo decisionale stesso.

Per una democrazia più partecipata

La filosofa politica di Yale Hélène Landemore, per esempio, sostiene che la crescente sfiducia verso la democrazia sia in realtà una insoddisfazione per la troppo poca democrazia, cioè per il fatto che le decisioni politiche sono prese sempre più in isolamento rispetto alla partecipazione popolare. Non senza spirito provocatorio, Landemore propone che alcune cariche politiche, per esempio in assemblee legislative, siano assegnate a sorte e non tramite elezione, per garantire una maggiore rappresentatività e l’attuazione della volontà della maggioranza.

Senza arrivare a questi estremi, nel suo saggio “Capitale e Ideologia” Thomas Piketty propone un modello di “socialismo partecipativo” che non consista solamente nell’introduzione di un regime fiscale più progressivo come forma di accesso a risorse finanziare da parte di tutta la popolazione. Piketty sostiene anche che la partecipazione dei lavoratori al governo delle imprese, come in Germania e nei paesi scandinavi, dovrebbe essere adottata da altri paesi per meglio contemperare i diversi interessi nei luoghi di lavoro e non solo.  

La compartecipazione alla governance aziendale e’ anche uno dei temi che caratterizza un movimento, promosso dalla sociologa Isabel Ferreras, la filosofa Dominique Méda e la professoressa della Harvard Business School Julie Battilana e sostenuto da migliaia di studiosi, che in anni recenti ha proposto una maggiore democratizzazione del lavoro. Proprio Julie Battilana, con Tiziana Casciaro dell'università di Toronto, nel loro saggio “Power, for All” propone una distribuzione più diffusa del potere nelle organizzazioni, al fine di motivare il maggior numero di persone e ottenere il meglio che ognuno può offrire.

L’economista di Stanford Matthew Jackson, inoltre, sostiene che le relazioni fra persone di simile estrazione socio-economica riduce la mobilità sociale perché all’interno di queste reti sociali viaggiano informazioni che facilitano, ad esempio, il successo scolastico e professionale. Misure che consentano una maggior permeabilità di questi gruppi ristretti, come ad esempio politiche per le pari opportunità (di genere e non solo) o abitative, possono contribuire ad aumentare l’inclusione, e di conseguenza anche la motivazione a partecipare alla cosa pubblica. Il giurista Cass Sunstein considera la promozione di esperienze condivise e la facilitazione di occasioni e luoghi di contatto fra persone socialmente e ideologicamente distanti come un modo per ridurre l’eccesso di polarizzazione ideologica. Viene quindi in mente il ruolo che partiti radicati sul territorio, e altri corpi intermedi come i sindacati, hanno a lungo esercitato offrendo occasioni di incontro e confronto trasversali.

Bisognerebbe smetterla di relegare queste entità a un periodo passato, visto anche lo stato in cui versano i partiti del ventunesimo secolo, spesso ridotti a comitati elettorali o agenzie di marketing, e alla ricerca di sotterfugi più o meno leciti per finanziarsi, rendendosi poi “debitori” verso interessi che certo non sono quelli delle classi popolari. Il ritorno a forme rinnovate di finanziamento pubblico dei partiti, come propone l’economista Julia Cagé nel suo “Il Prezzo della Democrazia” e che diversi commentatori hanno rilanciato in questo giornale, potrebbe infatti contribuire a rendere la politica un’arena in cui più e più persone si sentano ascoltate e coinvolte. Infine, delegare potere a comunità sul territorio come propone Raghuram Rajan ne “Il terzo pilastro”, e come anche intellettuali italiani, ad esempio Massimo Cacciari, da tempo sostengono, potrebbe ulteriormente stimolare il coinvolgimento diretto dei cittadini.

La diffusa partecipazione politica, a partire dal voto, è parte di un circolo virtuoso che consente di scegliere fra più proposte, di rendere le scelte più accettate dalla popolazione, e di operare effettivamente per il bene di una fascia più ampia di cittadini. Un circolo virtuoso che più condurre a un benessere più diffuso e inclusivo. Si tratta quindi di un obiettivo primario in sé, nel quale le forze progressiste possono e devono impegnarsi. Le idee non mancano.

© Riproduzione riservata