Anche il lavoro non è più quello di una volta. Le ragioni che sostengono questa affermazione sono molteplici ma quella che a noi qui più interessa ha a che fare con la  grande eterogeneità che caratterizza il mondo del  lavoro. 

Le prove sono molte e quasi tutte pongono sfide rilevanti alle interpretazioni del mondo contemporaneo ancorate, da un lato, a visioni non più attuali e, dall’altro, a narrative ben poco fondate. Se, infatti, non abbiamo più la granitica classe operaia, le eterogeneità non sembrano dipendere dai diversi ‘meriti’ dei lavoratori.  

Disuguaglianza nei tempi 

La più banale delle eterogeneità è la disuguaglianza salariale. I dati ci dicono che nel nostro paese questa disuguaglianza è enormemente aumentata negli ultimi 30 anni  – in questo periodo, fra i soli dipendenti privati, la disuguaglianza delle retribuzioni annue è cresciuta di circa il 25 per cento - e una delle cause è la disparità di accesso a lavori sufficientemente continuativi o con un numero di ore adeguate a consentire una remunerazione decente. Ciò vuol dire che alle disuguaglianze nelle paghe orarie si sommano, e con un peso ben maggiore, le disuguaglianze nei tempi e nei periodi di lavoro che sono in larghissima parte tutt’altro che il riflesso di diverse preferenze. L’accertata elevatissima quota di lavori part time involontari sta lì a provarlo.

Una rappresentazione estrema dell’eterogeneità economica la fornisce quello che è accaduto alle code della distribuzione dei salari: da un lato cresce il numero degli ormai tristemente noti working poor – fra i dipendenti privati circa un terzo guadagna meno di mille euro lordi al mese – e dall’altro cresce il reddito dei non troppo noti super-ricchi da lavoro, come dimostra il fatto che la quota di reddito da lavoro nel reddito complessivo percepito dall’uno per cento più ricco è molto aumentata in quasi tutti i paesi, tra cui il nostro.

I veri fattori 

È cresciuta la disuguaglianza salariale dovuta a cause diverse da quelle che vengono frequentemente invocate, anche per ricondurre quella disuguaglianza a logiche meritocratiche. Tra le più invocate ci sono le migliori competenze e capacità, il ‘maggior’ capitale umano, presunta espressione di merito individuale. Una grande quota di disuguaglianza salariale ha però poco a che fare con il capitale umano: la percentuale di laureati che guadagna meno del diplomato medio è impressionante, oltre il 40 per cento, e le disuguaglianze salariali a parità di istruzione sono elevatissime.

Troppi gli altri fattori rilevanti. Contano il settore di attività, le dimensioni dell’impresa in cui si lavora e, forse al di sopra di tutto questo, le origini familiari. L’esito è una straordinaria frammentazione che porta a un fenomeno che potremmo chiamare di individualizzazione del lavoro nonché alla creazione di un segmento estremamente debole che oltre a caratterizzarsi per la distanza dal lavoro ‘forte’ si può considerare la determinante dello spostamento di quote complessive di reddito dal lavoro al capitale, avvenuta negli scorsi anni e sufficientemente documentata da molte ricerche.

Questa individualizzazione trova riscontro nelle indagini dirette a rilevare il grado di soddisfazione per il lavoro. I dati raccolti dall’indagine “Aspetti della vita quotidiana” dell’Istat precedente la pandemia dicono che solo il 15 per cento dei lavoratori era soddisfatto complessivamente del proprio lavoro mentre un’indagine Anpal del 2017 rileva che solo il 30 per cento è molto soddisfatto della propria remunerazione, oltre la metà è insoddisfatta delle ore lavorate e circa il 35 per cento trova non interessante il lavoro svolto. Inoltre più di un quarto degli autonomi desidererebbe un lavoro alle dipendenze.

Il lavoro e una vita di non qualità

Se la qualità della vita delle persone dipende soprattutto dal lavoro, questi dati suggeriscono che solo per una minoranza il lavoro è la porta che conduce verso una vita di qualità. Peraltro, per moltissimi, le circostanze da cui dipende l’insoddisfazione sono persistenti.

A rafforzare queste conclusioni sulla qualità della vita concorre l’abbondante evidenza del rapporto tra bassi redditi, insoddisfazione sul lavoro e una serie di altre cause di ‘malessere’, talvolta anche tragico. In Italia e nel mondo sono stati i più poveri a subire maggiormente – per il reddito basso e le condizioni di lavoro - gli effetti sanitari e economici della pandemia e sono loro che subiscono maggiormente i costi del cambiamento climatico in atto che flagella le coste, scatena tempeste, ecc. E sono i più poveri a stare generalmente nelle ultime posizioni della graduatoria sulla speranza di vita.

Ci si può naturalmente chiedere, magari storditi da alcune singolari affermazioni sul reddito di cittadinanza, se i lavoratori svantaggiati non siano responsabili del loro destino e non siano vittime di pretese irrealizzabili anche in un mondo civile. La risposta è che se questo è vero lo è su una scala infinitesimamente piccola. Il problema vero è che costoro sono vittime di meccanismi che si sono consolidati negli anni e che, sintetizzando, proteggono i più potenti e avvantaggiati (capitalisti, ma anche lavoratori), tengono stretta la porta di accesso alla mobilità sociale e li lasciano senza voce (voice, per citare Hirschman) nelle stanze delle decisioni e con pochissime possibilità di exit, cioè di accesso ad alternative decenti. Conoscere più a fondo questi meccanismi, vincendo tutti gli ostacoli, a iniziare dalle narrative che mirano a impedirlo, e utilizzare quella conoscenza per correggerli è forse il miglior proponimento che si possa fare nella ricorrenza del 1° maggio.

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