Il rapporto del Censis descrive una società italiana in difficoltà ma anche un’Italia economicamente non così disastrata. Da una parte tanto lavoro, dall’altra spaesamento. Come si compone tale quadro contraddittorio? Eravamo abituati a pensare che la prosperità fosse tutto ma non è così. Il benessere collettivo non dipende esclusivamente da quanta ricchezza si produce, al netto delle diseguaglianze e dei poveri che ci accompagnano comunque sempre. Lo si vede in due sezioni della popolazione, analogamente vulnerabili (anche se in modo diverso) e comunque più fragili: gli anziani e i giovani.

Anziani abbandonati

Scrive Andrea Malaguti sulla Stampa: «Passeremo il tramonto dei nostri giorni in miniappartamenti, abbandonati a noi stessi o in una Rsa…». Si tratta di una domanda bruciante: la solitudine è il destino di una società sempre individualista al limite del narcisismo. Dopo tanto gridare contro o sopra gli altri, dopo i tanti “io io io” urlati in faccia agli altri, si rischia di finire tristi e soli.

La solitudine è la malattia in più dalla quale nemmeno i soldi possono salvare. Una società con poca famiglia, senza figli, senza ambizioni e senza futuro perché schiacciata sul presente, si ripiega fino ad accartocciarsi. Gli anziani subiscono già ora l’impatto di tale scadimento: si pensi alla Rsa di Milano bruciata questa estate, ai morti asfissiati, al funerale in cui non c’era nessuno… un affaire già archiviato nell’indifferenza generale, che non ha provocato riflessioni o cambiamenti.

Ogni volta che si parla di Rsa c’è anzi qualcuno che si inalbera per difenderne il modello economico, senza (voler) accorgersi che è proprio tale impostazione a indurre in errore. Non si sta discutendo di sostenibilità ma di qualità del futuro. Né si sta parlando di assecondare la società asfittica attuale (del genere “ma come faranno le famiglie?” come chiedono i difensori del modello istituzionalizzante) senza (voler) rendersi conto che è proprio questa la strada sbagliata da cui fuggire. Se non sono in grado di partecipare alla fine della vita dei propri anziani, le famiglie attuali stanno preparando il proprio suicidio.

Vanno aiutate ma non spinte ancor più al disimpegno: scaricare i propri vecchi – o disabili – in istituto che soluzione umana è? Occorre fuggire il vittimismo invece di moltiplicare le vittime. C’è bisogno di ricostruire famiglia laddove famiglia non c’è. Don Mazzi diceva: «Dio ha creato la famiglia; l’uomo ha inventato l’istituto».

Giovani e passioni tristi

È utile anche ascoltare i giovani per capire a cosa ci stiamo preparando. Il rapporto Censis parla di distanza “siderale” tra generazioni. C’è da dire che per le generazioni precedenti (soprattutto quella del ‘68) la relazioni con gli adulti non era considerata una particolare priorità: «Non fidarti di chi ha più di 35 anni» stava scritto sui muri di Parigi. Tutta quest’ansia di comunicare con i più grandi (e con i genitori) non era ricercata, anzi: si sfuggiva l’autorità preferendo una società tra pari. La grande riserva di energia veniva attinta dentro la propria generazione. Ma i numeri erano diversi: quello era un mondo vasto e in ebollizione.

Oggi i giovani sono pochi e cercano una relazione della quale gli adulti narcisisti nemmeno si accorgono. A furia di far finta di trattarli come pari, non si è costruito nessun rapporto, non solo autorevole ma nemmeno decente. Cosa vedono i più giovani: adulti sempre intenti a discutere e litigare e che nemmeno si ascoltano tra di loro: dei sonnambuli appunto.

Si litiga su tutto: sulla magistratura, sulle regole, sulla democrazia, sull’economia, sul futuro, sulla guerra, sulla scuola, sulla sanità, sulla televisione, sullo stato, sulle tasse, sulle spiagge e così via. La politica è un litigio permanente che nei giovani crea rifiuto. Che immagine danno adulti arroganti, sempre in lite, che non ascoltano mai nessuno? Basta guardare i nostri talk per rendersene conto: non si parla per trovare soluzioni e nemmeno per capire.

Ogni accordo, dialogo o compromesso è mal visto e considerato un inciucio. Si parla (per lo più si urla) per affermare le proprie volatili opinioni autocentrate, pronti a cambiarle senza sentirsi in contraddizione. Nessuno ha un’idea, una proposta (per non parlare di visioni); se ce l’ha, rovina tutto nella polemica permanente. Si dice: il mezzo è il messaggio e così ci si limita alla comunicazione (la grande ossessione contemporanea) invece di badare ai contenuti. Se non si è disposti a litigare non si è mai invitati ai programmi che contano.

La tv offre una finta benevolenza, un’apparenza di empatia che in realtà non esiste. Anche in politica avviene lo stesso: o si è pronti alla polarizzazione continua o nessun media ne parla. Ad una generazione giovane fragile ed incerta, spaesata in un mare di messaggi minacciosi e di crisi, adulti così non servono a nulla. Aumentano solo l’ansia.

La verità è che anche tali adulti sono impauriti del futuro ma scelgono di non pensarci, concentrandosi solo su sé stessi. Un’epoca di passioni tristi che si trasformano in incubi di solitudine. Il tasso di isolamento a cui ci siamo sottoposti fa rabbrividire: una massa di soli arrabbiati e insoddisfatti.

Non sarà la ripresa economica o un’improvvisa prosperità a curarci.

Uscire da sé stessi

Eppure una soluzione esiste ed anche abbastanza semplice: uscire da sé stessi occupandosi degli altri. Si tratta di una grande medicina che cambia completamente lo scenario in cui siamo avvolti. Decidere di fare qualcosa per gli altri, volontariamente e gratuitamente, è un grande rimedio contro la solitudine e l’isolamento, specialmente contro il cattivo umore, l’insoddisfazione e la rabbia. Lo si può intuire: all’inizio uno pensa che serva soltanto a distrarsi dai propri problemi per un po’, ma che poi torneranno. Ma subito dopo si diventa consapevoli che i propri problemi assumono la loro giusta dimensione a contatto con quelli degli altri, si ridimensionano o sono compresi meglio. Il confronto è spesso salutare. In alcuni casi è proprio l’occuparsi degli altri la soluzione, perché molta collera e insoddisfazione vengono autoprodotti e sono conseguenza dell’isolamento stesso.

Vivere soli con sé stessi ingigantisce tutto, trasformando i problemi in un muro invalicabile. Uscire da sé rende la vita più semplice perché la si condivide. Un aiuto – anche concreto – arriva sempre da dove meno uno se lo aspetta. Ma cosa fare per gli altri? Qualunque cosa, a propria scelta. Non si pensi a cose difficili: c’è chi decide di fare volontariato tra i malati, i sofferenti e i poveri.

È una possibilità in cui l’importate è farlo assieme ad altri. Ci sono però tante altre forme per occuparsi degli altri, ad iniziare dai propri vicini, dal proprio quartiere, dalla propria città. Ci sono ambiti diversi, dalla cultura all’educazione. Anche organizzare feste per bambini è importante. Al volontariato non va associata l’idea di sacrificio o di impegno gravoso: è anche divertimento, gioia. Distrae dallo stare solo a rimuginare su di sé ed è già questo un gran balsamo contro la ruvidezza della vita.

La cosa più importante accade durante: fare amicizia. Non si può prevedere con chi si allaccerà un legame di amicizia ma una cosa è certa: nascono amicizie durature che poi sono la vera risposta alla patologia della solitudine. Postilla politica: questo vale per le persone ma può valere anche per gli stati. Molto dell’irrilevanza italiana ed europea odierna nasce dal fatto che l’Europa e l’Italia si sono ripiegate su di sé e hanno dimenticato di chi c’era attorno, tutte concentrate a litigare tra sé.

Non servono solo i soldi: per ricrearsi uno spazio di influenza e di relazioni significative è utile occuparsi con continuità dei vicini e dei lontani. Ci sono tanti e diversi modi in cui si può collaborare tra stati. Se non lo si può fare con tutti lo si faccia almeno con alcuni. L’importante è farlo in maniera visionaria e prospettica: pensando cioè ad un futuro in comune e non solo allo scambio basato sugli interessi. È una generosità che alla fine verrà sicuramente ripagata.

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