La primavera dello scorso anno mentre venivano chiusi per alcune settimane i piccoli e grandi mercati rionali, i luoghi della grande distribuzione organizzata hanno potuto vendere indisturbati generi alimentari freschi e inscatolati, anche la domenica. Fu certo un errore che ha fatto gettare in tutto il paese tonnellate di frutta e verdura fresca ai piccoli agricoltori, privati del loro canale privilegiato di vendita al consumatore, appunto il banco del mercato. Speriamo che da tale errore si sia imparato qualcosa.

Questa scarsa sensibilità di chi governa è la stessa che ha permesso ai centri commerciali con i loro megamercati di minare quasi ovunque l’attività dei piccoli esercenti, oltre che cementificare ettari di terreno. Per quanto la pubblicità del cibo sia impregnata, nei suoi proclami, del pensiero ambientalista e sottolinei fino al ridicolo la salubrità, la sostenibilità e soprattutto l’italianità dei prodotti – persino quando si tratti di petfood – la realtà che si è affermata negli ultimi 25 anni rivela qualcosa di molto diverso.

Solo i grandi

Nell’Unione europea le dieci maggiori catene della distribuzione, fra le quali non compare nessuna italiana, commercializzano il 50 per cento dei prodotti alimentari. Il consumatore italiano trova i tre quarti dei prodotti agroalimentari freschi o confezionati sugli scaffali del supermercato; nel 1996, erano solo la metà. Nello stesso periodo si è dimezzato in Italia il numero di aziende agricole, di cui è aumentata però la dimensione media. Infatti in dieci anni dal 2000 al 2010 sono scomparse un terzo delle piccole e medie aziende. Nel 1982 erano tre milioni, nel 2016 poco più di un milione. Le poche grandi società di vendita al dettaglio dettano legge in modo autoritario. Con il loro potere di acquisto stabiliscono il valore di un prodotto e in questo modo ne determinano pesantemente le caratteristiche e i costi di produzione.

Se una conserva di pomodoro venduta al supermercato costa un euro, la distribuzione ne incassa 83 centesimi, all’industria che l’ha inscatolata vanno 10 centesimi, mentre per chi fa crescere i pomodori non restano che sette centesimi. Il volume di affari delle catene di distribuzione sovranazionali solo delle conserve e salse di pomodoro italiano in Europa è di 1,5 miliardi di euro. Infatti il 90 per cento dei pomodori coltivati in Italia, principalmente in Emilia Romagna e in Puglia (a Capitanata), vengono lavorati dall’industria conserviera italiana soprattutto per l’esportazione.

Nel Saluzzeze, dove si produce la maggior parte delle frutta del Piemonte, in certe annate i costi di produzione delle pesche sono stati di 30-35 euro al chilo, ma le grandi catene di distribuzione, fra le quali la Lidl, le hanno comprate a un prezzo inferiore. L’embargo con la Russia, dove le pesche più acidule piemontesi erano molto gradite, ha tolto il più generoso concorrente dal mercato. In questo contesto la dimensione dell’azienda e la riduzione dei costi di produzione sono fondamentali. E qui si arriva all’anello debole di tutta la catena produttiva: i braccianti agricoli. Tutt’altro che sostenibili sono le loro condizioni di lavoro, ma certo funzionali al mantenimento di quel sistema sperequato.

I braccianti

Un volume appena uscito per Edizioni Seb27 e curato da Ilaria Ippolito, Mimmo Perrotta e Timothy Raeymaekers, intitolato Braccia rubate dall’agricoltura. Pratiche di sfruttamento del lavoro migrante, mette in luce proprio le caratteristiche del lavoro bracciantile degli immigrati stagionali, impiegato nelle imprese agricole familiari, ancora la regola nel nostro paese, così come nel resto dell’Unione europea. Un terzo dei circa 364mila lavoratori dipendenti in agricoltura registrati dalle statistiche ufficiali sono stranieri. Ma questi dati nulla dicono su chi un contratto di lavoro non lo ha mai visto, e poco di coloro che, pur avendo un contratto, superano raramente le 50 giornate lavorative l’anno, un periodo troppo breve per usufruire di indennità di disoccupazione.

Il libro mette insieme anni di lavoro sul campo, svolto da una quindicina di ricercatori in svariate zone del paese, dalla Basilicata (Melfese, Alto Bradano, Piana di Metaponto) al Cuneese (Saluzzo), dalla Campania (Capitanata) alla pianura padana. Nei loro interventi si apprende con quale dinamica i mungitori indiani del Punjab sono diventati fondamentali per la filiera del Parmigiano Reggiano e del Grana Padano; come vivono i giovani africani nelle costruzioni abbandonate o negli accampamenti costruiti con materiali di scarto nei ghetti nel meridione, così come in Piemonte. Inevitabilmente viene affrontata la questione degli intermediatori del lavoro, che non coincidono soltanto con i caporali, perché le pratiche formali e informali di mediazione del lavoro sono molto varie, quasi mai appannaggio delle agenzie pubbliche. Anche i rapporti fra bracciante e datore di lavoro non vengono descritti in bianco e nero, perché molto spesso la realtà dei contratti parla di un lavoro grigio che formalizza il rapporto, ma sempre sottostimandone l’entità.

Nomadi agricoli

Lo sguardo dei ricercatori si allarga alle politiche sull’emigrazione degli stati dell’Unione che negli ultimi anni non hanno più contemplato gli spostamenti per motivi di lavoro e ne hanno drasticamente ristretto le possibilità, applicando la direttiva dell’Unione del 2014 che consente l’ingresso per una specifica mansione e in subordine alla firma di un contratto. Ma la scomparsa del lavoro dai discorsi ufficiali che riguardano le politiche migratorie si spiega anche con la disponibilità di un bacino di manodopera rappresentato dai richiedenti o titolari di protezione internazionale o umanitaria. Se i lavoratori romeni, polacchi o bulgari non bastano per sopperire al bisogno di manodopera nei campi, soprattutto in tempi di Covid, e altri lavoratori non vengono più previsti tramite i decreti flussi, è perché nel nostro paese migliaia di giovani uomini africani si spostano di regione in regione, per lavorare alla raccolta a seconda della stagione, senza mai avere davvero un luogo di residenza. Il loro precario status giuridico li rende particolarmente ricattabili e adatti a un sistema di sfruttamento collaudato. Gli autori del volume sottolineano come non si tratti di marchiare come schiavistici certi rapporti di lavoro, per poi costruire narrazioni sui casi strazianti di vittime sfruttate e padroni senza scrupoli. Questo approccio distoglie l’attenzione dal quadro più generale, da un sistema che proprio grazie a tali rapporti di sfruttamento sopravvive e si rigenera. Il Covid ha poi contribuito a rendere ancora più difficili le condizioni di vita dei precari lavoratori dei campi.

Gli stagionali africani nella scorsa stagione, per esempio, non hanno più potuto usufruire di certe soluzioni abitative collettive, negli anni passati solo faticosamente allestite dai comuni (Piemonte) o dalle organizzazioni come la Croce Rossa (Basilicata). Così nella cittadina di Saluzzo, nel Cuneese, per la stagione delle due ultime annate, circa 600 braccianti africani trovavano riparo per la notte in una ex costruzione militare (Pas), trasformata in dormitorio, e altri 500 usufruivano dei servizi ad esso connessi. Quest’anno l’emergenza sanitaria ha fatto chiudere questa struttura, lasciando in funzione solo un centinaio di posti, sparsi per i comuni, in container o abitazioni. E così centinaia di braccianti africani, esclusi dall’assegnazione di quei pochi posti, dopo una giornata di raccolta della frutta si sono dovuti accampare nei parchi, nei parcheggi dei supermercati, sotto i porticati di uffici periferici e in altri spazi dove trovare una fonte d’acqua e un riparo dagli acquazzoni estivi. La Caritas ha offerto nella sua sede, come in passato con il “Progetto presidio” (dal 2014 al 2016 anche un “campo solidale” di tende e servizi), assistenza sanitaria, amministrativa, una doccia, la custodia del bagaglio, altrimenti a rischio di essere sgomberato dalla nettezza pubblica durante il giorno insieme ai giacigli di cartone. I medici volontari del presidio sanitario della Caritas hanno anche segnalato alla Asl dei giovani con sintomi riconducibili al Covid ma anche alle notti trascorse all’addiaccio: a 15 di loro verrà effettivamente diagnosticata la malattia.

 

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