Siamo un paese dimezzato, in cui una metà del paese, quella delle donne, è sottorappresentata, sottooccupata e sottopagata. Secondo gli ultimi dati Istat, il tasso di occupazione femminile nella fascia tra i quindici e i 64 anni, è di diciannove punti inferiore a quella degli uomini: una enormità. E se arriva al 60 per cento al nord, al sud si ferma appena al 33 per cento. Ci sono milioni di donne che potrebbero essere impiegate che sono di fatto escluse dal sistema produttivo e la pandemia non ha fatto altro che aumentare questa esclusione.

Complessivamente l’occupazione femminile è in calo e oggi è al 48,6 per cento, mostrando ha detto ieri l’economista Azzurra Rinaldi in audizione di fronte alle commissioni bilancio e affari sociali sul Recovery plan, quanto i progressi fatti siano «estremamente fragili». Da anni la questione di genere è diventata una priorità per chi studia l’economia italiana, perché oggi sulla quantità e la qualità del lavoro femminili l’Italia si gioca lo sviluppo.

Secondo un recente report pubblicato dallo European institute for gender equality, l’istituto europeo per l’uguaglianza di genere, il miglioramento dell'equità di genere porterebbe a un aumento del Pil pro capite dell'Ue dal 6,1 al 9,6 per cento, pari a 2 - 3mila miliardi di euro. Anche il McKinsey Research institute conferma la tesi: a livello globale un miglioramento della equità di genere porterebbe a una crescita pari alla somma del Pil di Regno Unito, Stati Uniti e Giappone. Questi numeri devono essere presi con le dovute cautele vista la quantità di variabili incluse, ma offrono anche l’idea di quanto la transizione verso un modello paritario sia economicamente rilevante.

Tra la Thailandia e il Suriname

La Spagna, che è ottava nell’indice globale del gender gap stilato dal World economic forum, ha messo la parità di genere al terzo posto del suo Recovery plan, mentre per l’Italia che in quella stessa classifica è 76esima, tra la Thailandia e il Suriname, non è una priorità.

Ieri mattina, ad ascoltare gli interventi delle associazioni che si battono per fare del Recovery plan uno strumento equo, c’erano peraltro solo parlamentari donne. Tra gli obiettivi proposti dalle associazioni che si occupano del divario di genere c’è quello di arrivare a un’occupazione del 60 per cento, agguantando la media europea: una crescita che porterebbe, sempre secondo le stime dell’istituto europeo per l’equità di genere, a un aumento del Pil italiano di sette punti percentuali. Per arrivarci l’Italia dovrebbe convertire il suo modello di welfare che è non solo discriminatorio, basato sullo sfruttamento, ma ormai non più economicamente sostenibile.

Un cambio di modello

Come ha spiegato ieri Giovanna Badalassi, ricercatrice dell’associazione Ladynomics, bisogna abbandonare il modello familistico. «Serve un cambiamento molto profondo anche culturale, un passaggio dal modello del bread winner, cioè del papà che guadagna, al double earner dove i due adulti della famiglia si procurano un reddito», ha argomentato Rinaldi.

Questo vuol dire anche che i modelli familiari devono riequilibrarsi nel carico delle mansioni, appoggiandosi a infrastrutture sociali che oggi non sono adeguate alla domanda, come gli asili da sempre promessi e per cui nel Recovery plan sono stati stanziati oltre tre miliardi di euro. Politiche come l’assistenza all’infanzia e congedo parentale retribuito hanno un impatto positivo sulla partecipazione delle donne alla forza lavoro. In Norvegia, ad esempio, l’espansione dell’assistenza all’infanzia universale ha aumentato la probabilità di occupazione di madri di 32 punti percentuali rispetto al tasso di partecipazione di partenza.

In Italia anche solo il ricorso allo smart working è molto differenziato. Secondo una nota recente della Banca d’Italia sugli effetti del Covid mentre «nel 2019, la percentuale di uomini e donne che facevano ricorso alla modalità di lavoro agile era simile», con la pandemia, «l’incremento dello smart working per le donne è stato di 15,4 punti percentuali (al 16,9 per cento), il 4,1 punti percentuali in più degli uomini (al 12,8 per cento)».

Questa differenza, ha ricordato Roberta Carlini dell’associazione In genere, è dovuta soprattutto al carico della cura dei figli, ma lo stesso discorso si potrebbe fare per la cura degli anziani.

Il peso della doppia cura può portare le donne italiane a quello che in gergo viene chiamato “effetto sandwich”, che pesa su di loro negli anni in cui dovrebbe essere maggiore il loro contributo al mondo del lavoro in termini di produttività.

Il Recovery plan proposto dal governo oltre al piano per gli asili e le scuole dell’infanzia propone la decontribuzione per l’occupazione femminile e incentivi alle donne che vogliano intraprendere una formazione nelle materie scientifiche.

Tutte misure utili, necessarie ma non sufficienti visto l’esperienza passata. «Lo spostamento di occupazione femminile in settori in prettamente maschili è stato dello 0,4 per cento in dieci anni», dice Badalassi, che propone un piano di compensazione per valorizzare i settori a prevalenza femminile.

Nel mercato del lavoro le donne sono oggetto di una doppia segregazione, orizzontale perché si concentrano soprattutto in alcuni settori spesso poco redditizi e verticale, perché l’accesso alle posizioni apicali è ostacolato.

Tanto che il gender gap, cioè la differenza di paga tra uomini e donne, che secondo l’Istat è vicina al 25 per cento, aumenta nei settori economici e finanziari dove le donne sono meno presenti e diminuisce nei settori del sociale e della cura.

Per rivalutare il lavoro femminile secondo Badalassi tra le tante cose bisogna iniziare anche a rivalutare il lavoro di cura che «per secoli è stato un lavoro gratuito e nel nostro sistema è sottopagato» e considerato di bassa qualità, mentre con i dovuti investimenti può diventare un settore a maggiore produttività. Un modello che potrebbe portare benefici a tutta la collettività, ma che dipende anche «dal benchmark che fissa lo stato».

 

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