Sono migliorate le condizioni meteo nel Mediterraneo e le foto degli sbarchi riguadagnano le prime pagine dei giornali. Nella notte tra il 24 e il 25 gennaio sono sbarcati 280 migranti a Lampedusa. Tra il 27 e il 28 gennaio si sono registrati almeno 200 arrivi sulle coste dell’isola siciliana.

L’hotspot di contrada Imbriacola è già sovraffollato. Dopo oltre sette giorni dai primi salvataggi la nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere ha ricevuto l’autorizzazione per raggiungere il porto di Augusta. Trasportava 439 persone. Il tempo passa, ma la storia si ripete uguale a sé stessa. A un’emergenza segue un’altra emergenza. Quando il tema sono le migrazioni finiamo per discutere quasi solo di respingimenti, quote e barconi.

Un vizio assai diffuso continua a macchiare il dibattito pubblico su questi temi. Si tende a considerare l’Europa nel suo complesso come il centro della questione. Forse mossi da uno spirito un po’ auto indulgente, tendiamo a credere che tutte le migranti e i migranti preferiscano venire qui da noi. E così, buona parte delle energie intellettuali ed economiche rimangono nel perimetro delle politiche dedicate alla sicurezza e alla gestione dei confini. Si parla così di «invasioni di migranti» e «numeri choc». È però arrivato il momento di aggiungere un po’ di particolari a questa storia.

Restare in Africa

Per prima cosa occorre tenere presente che, come riporta l’African Migration Report, più della metà della popolazione migrante africana si muove all’interno del continente. Secondo un recente studio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), nel nord del Mali la maggior parte dei richiedenti asilo considera l’Algeria come la prima destinazione d’elezione.

Malgrado la nota situazione di instabilità politica, la Libia continua a essere percepita come un punto di arrivo del percorso migratorio. Vale la pena ricordare che ospitava almeno un milione e mezzo di migranti prima della caduta di Mu'ammar Gheddafi. Nel 2020, sempre secondo stime OIM, si contavano quasi seicentomila migranti nel territorio libico. I principali paesi di provenienza sono Chad, Egitto, Niger e Sudan.

La maggioranza dei migranti dall’Africa subsahariana si ferma in Algeria, Libia, Marocco e Tunisia. Dati OIM attestano che una percentuale molto bassa (attorno al cinque per cento) dei migranti totali prova ad attraversare il Mediterraneo. Anche all’interno del continente africano i differenziali di reddito tra paesi sono infatti considerevoli.

E così, nei paesi nordafricani un altissimo numero di migranti è occupato in professioni lasciate scoperte dalla popolazione locale nel settore agricolo, nell’assistenza agli anziani e nell’edilizia. Nei centri urbani di Algeri e Orano è facile imbattersi in donne e uomini da tutto il Sahel. Nella città algerina di Tamanrasset la percentuale di migranti sul totale della popolazione è cresciuta fino al quaranta per cento.

Migrazioni e sviluppo

Non stiamo parlando di tendenze inedite. Già nella primissima fase postcoloniale i migranti subsahariani costituivano una forza lavoro essenziale allo sviluppo dei siti di estrazione in Libia e nell’Algeria meridionale. Con il passare del tempo, e la scoperta di risorge energetiche nel Sahel, lo stesso fenomeno ha contribuito alla crescita demografica in Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania e Niger, paesi sempre più coinvolti da migrazioni stagionali o temporanee.

Al contrario di quanto ci raccontiamo, la migrazione africana è quindi in larga parte un fenomeno «africano». E come tale dovrebbe essere interpretata, studiata, gestita e valorizzata. È vero che in certi casi la decisione di trattenersi nelle città nordafricane rappresenta un ripiego. Tuttavia, questo non deve farci perdere di vista il fatto che una larga maggioranza di migranti cerca nel Nord Africa nuove opportunità di vita e lavoro.

Da tempo esperti e attivisti chiedono un cambio di paradigma, da un approccio emergenziale a una visione in cui la migrazione diventa essa stessa uno strumento di sviluppo economico e sociale. Non confondiamo questo modello con il ritornello dell’«aiutiamoli a casa loro». Il punto qui non è arginare la migrazione, bensì trasformarla in un vero e proprio strumento di emancipazione.

Di fronte a queste spinte la politica nazionale e sovranazionale continua però a procedere con azioni di corto respiro. Quando il numero di migranti cresceva, l’Unione Europea si adoperava per trasformare il Nord Africa in una zona cuscinetto. Il Nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo del 2020 dà priorità alla gestione delle frontiere esterne e ai partenariati con i paesi di origine e transito.

Un approccio diverso

Sembra sempre che i flussi migratori africani possano essere solo diretti verso l’Europa. Un presupposto falso che dimostra una visione miope. Un presupposto falso che non si sofferma su alcuni sviluppi politici nel contesto africano. Pensiamo, ad esempio, al Protocollo del 2018 per il libero movimento delle persone e all’AfCFTA del 2019 —il trattato che mira ad aprire le frontiere e creare un'area di libero scambio tra 54 Paesi africani.

Su questo sfondo Unione Europea, Stati membri e Unione Africana dovrebbero indirizzare la loro azione verso la gestione della migrazione e dei processi di inclusione nei paesi del Nord Africa, le cui economie potrebbero assorbire una crescente popolazione in età lavorativa. Il sostegno a flussi di manodopera adeguatamente gestiti e in conformità con i trattati sui diritti dei lavoratori potrebbe davvero disincentivare la migrazione irregolare ed evitare altre tragedie nel Mediterraneo.

Si continua però a trascurare il potenziale di un approccio sistemico alla governance delle politiche migratorie tra Africa ed Europa. Assecondare la narrativa più semplicistica ha però dei costi: indebolisce i tentativi di limitare la migrazione irregolare tra la regione subsahariana e il Maghreb, attenua i legami tra paesi ed economie africane, e compromette l’idea di trasformare le migrazioni interne in un motore di sviluppo per tutto il continente.

Ci sarebbe ampio spazio di manovra. Si potrebbero creare più occasioni di dialogo tra Stati europei, paesi del Maghreb e dell’Africa subsahariana. Si potrebbero integrare le città nordafricane nelle reti di città europee che già collaborano alla mobilitazione di risorse e all’ideazione di progetti d’inclusione. Si potrebbe cambiare la destinazione delle risorse destinate all’esternalizzazione dei confini, magari offrendo supporto economico e logistico alla creazione di canali di migrazione temporanea e regolare verso il Nord Africa. Si potrebbe, tanto per iniziare, guardare ai fatti con più serietà. Iniziare quindi a trattare la migrazione africana per quello che è, non per quello che noi pensiamo che sia.

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