È noto che il mercato del lavoro italiano si caratterizza per essere particolarmente ostile alla partecipazione femminile. Il dato sull’occupazione delle donne è emblematico. Secondo i dati Eurostat, nel 2019 prima della diffusione della pandemia, solo una donna su due, tra i 20 e i 64 anni, era occupata. Questo dato è il peggiore dell’Europa, eguagliato solo dalla Grecia. Decisamente lontano dall’oltre 75 per cento dei paesi scandinavi, ma anche di Olanda, Germania, Regno Unito, Lettonia e Lituania. A questo scenario di partenza, già molto critico, si sommano ora gli effetti della pandemia. Molti studi, richiamati anche su queste pagine, hanno mostrato come le sue conseguenze siano state peggiori per le donne. Questo non solo in Italia, ma sostanzialmente ovunque, come emerge chiaramente anche dal recente report delle Nazioni Unite sull’impatto del Covid-19 sulle donne in diversi paesi.

A spese delle donne

Quello che si delinea è uno scenario drammatico. Le donne lavorano meno, più spesso con lavori precari, hanno salari più bassi e, anche per questo, riescono a risparmiare di meno e scivolano al di sotto la soglia della povertà più frequentemente rispetto agli uomini. Anche se la pandemia è più letale per gli uomini, è la salute delle donne a risentire maggiormente della riorganizzazione sanitaria che ha messo in secondo piano i servizi ostetrici e ginecologici, sia in ottica di prevenzione che di cura. Spesso, ogni qualvolta in quest’ultimo anno le misure per fronteggiare la pandemia hanno richiesto la riorganizzazione della quotidianità, a farne le spese sono state soprattutto le donne, sulle quali grava il peso di bambini e anziani. La cronaca, infine, ci ha messo di fronte a diversi casi di violenza di genere aumentati proprio a seguito delle misure di isolamento sociale.

Si rischia di pensare che lo svantaggio femminile oggi riguardi solo le donne adulte e mature, dato che le ragazze ormai studiano più a lungo dei coetanei e ottengono, in media, risultati migliori. Purtroppo, non è così. Il divario di genere esiste anche nelle ultime generazioni, come mostrano i dati sui Neet (Neither in Employment or in Education or Training). In tutti i paesi europei, con la sola eccezione del Lussemburgo, la percentuale di giovani tra i 15 e 29 anni che non studia e non lavora è maggiore tra le donne che tra gli uomini. A detenere il record negativo sulle differenze di genere sono i paesi dell’Est Europa (Repubblica Ceca, Romania, Repubblica Slovacca, Estonia, Polonia, Bulgaria e Ungheria), dove la distanza tra maschi e femmine è di circa dieci punti percentuali. L’Italia spicca in negativo per la proporzione di Neet sul totale di giovani: lo è un ragazzo su cinque (20,2 per cento) e una ragazza ogni quattro (24,3 per cento), le percentuali più alte in Europa. Come si vede, da noi le differenze di genere sono più contenute (circa quattro punti, in linea con la media europea) ma comunque rilevanti.

La narrativa dei giovani bamboccioni, mammoni, choosy va quindi aggiornata al femminile? Anche le ragazze adesso si chiudono in casa a giocare alla playstation invece di rimboccarsi le maniche e andare a cercare un lavoro? In realtà non è affatto così e forse il caso delle donne Neet aiuta ancora di più a mostrare come questa retorica non sia solo fondata su presupposto sbagliati, ma possa risultare anche molto dannosa.

Proviamo a adottare una prospettiva longitudinale, ossia di lungo periodo, e osserviamo se la condizione di Neet sia sporadica o persistente. Nel primo caso, essere Neet si configurerebbe come uno stato episodico, con brevi periodi di non lavoro ad esempio tra un impiego e l’altro o per il tempo della ricerca di un’occupazione al termine della formazione. Nel secondo caso, invece, è una condizione di lunga durata che caratterizza percorsi più svantaggiati. Guardando i dati nel nostro paese, quella di Neet è nella maggior parte dei casi una condizione di lunga durata, come mostra una recente ricerca dell’Università di Torino sulle traiettorie lavorative e formative dei giovani italiani tra i 20 e i 29 anni. Non un passaggio, quindi, ma una vera trappola.

Due categorie

Una trappola molto rischiosa per due categorie di giovani: quelli che hanno titoli di studio più bassi e le donne. Queste ultime, anche quando sono laureate, hanno sempre maggiori probabilità rispetto ai loro coetanei di diventare Neet. Se andiamo più nel dettaglio, scopriamo poi quanto poco si adatti loro l’immagine di velleitarismo, nel migliore dei casi, o di svogliatezza, nel peggiore, che informa la retorica nel Neet. Si tratta infatti in prevalenza di donne con figli piccoli. Giovani madri, soprattutto tra i 24 e 29 anni che rimangono a lungo fuori dal mercato del lavoro. Questo dato è il riflesso, del quadro richiamato all’inizio: bassa occupazione delle donne italiane anche nelle coorti più recenti e forte disuguaglianza di genere nella ripartizione dei compiti di cura della famiglia. Più che a giocare con la playstation, una descrizione più accurata le dovrebbe cogliere mentre svolgono mansioni domestiche e di cura. E, anche se scoraggiate, si definiscono come disoccupate e desiderose di lavorare.

Ma perché allora questa narrazione dei bamboccioni, dei mammoni, dei choosy? Perché questa narrazione pone l’accento sulla responsabilità sui giovani. Un conto è affrontare il problema, articolato e complesso, della mancanza di opportunità nel mercato del lavoro, della necessità di adeguate politiche di conciliazione - lavoro-famiglia, part-time, congedi parentali, servizi per l'infanzia - e un conto è dire che i giovani sono svogliati. Questa narrazione, spostando il problema, assolve lo stato e le imprese dalle responsabilità che hanno nel contribuire a questa situazione.

Sapendo allora che gli impatti della pandemia sono ulteriormente amplificati nei contesti più diseguali, dove lo stato sociale è debole, un piano di misure concrete per sostenere la fascia di popolazione più fragile, in particolare donne giovani e adulte, deve essere prioritario nell’agenda politica.

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