È bastato un mese per alterare lo scenario economico. E non è una bella notizia per l’Italia perché i cambiamenti sembrano di natura strutturale, destinati a durare. Due gli elementi sulla cui portata ci si interroga: la salita inattesa dei tassi a lungo termine; e la fine del miracolo economico cinese.

Fino a qualche mese, fa la domanda chiave era se e di quanto Federal Reserve e Bce avrebbero aumentato i tassi d’interesse a settembre. Il pensiero corrente era che il ciclo degli aumenti negli Usa fosse comunque alla fine, il rischio recessione scongiurato a favore del soft landing, il trend dell’inflazione decisamente in discesa. E che, col 2024, la Fed avrebbe invertito la rotta, riducendo i tassi: un’attesa evidenziata dalla struttura a termine dei rendimenti, con quelli a breve maggiori di quelli a lungo termine.

Stessa struttura anche nell’Eurozona, nonostante le dichiarazioni dei membri della Bce lasciassero intendere la possibilità di ulteriori aumenti dopo settembre, per via di un’inflazione più radicata. Ma una serie di fattori lasciavano presagire che anche nell’area Euro il ciclo dei rialzi fosse alla fine: i dati congiunturali che segnano un marcato rallentamento in Europa, anche per i servizi che avevano beneficiato di un boom post Covid, il peggioramento di ordinativi e fiducia dei consumatori, e infine la recessione tedesca.

La previsione corrente era che la fine del ciclo dei rialzi si sarebbe verificata con un atterraggio meno morbido, per via di una politica fiscale che dal prossimo anno dovrebbe cessare di esser espansiva. Prevaleva quindi l’attesa che anche la Bce avrebbe cominciato a ridurre i tassi nel 2024.

Sorpresa tassi

L’elemento di novità è stato il forte aumento dei tassi, ma quelli a lungo termine. Un aumento quasi interamente dovuto a un incremento dei tassi reali, misurati dai titoli di stato indicizzati al costo della vita, che negli Usa sono tornati ai livelli precedenti la grande crisi del 2008, oltre il 2 per cento (a 10 anni), dopo aver oscillato intorno allo 0,5 negli ultimi 15. Lo stesso è successo in Germania, dove i tassi reali a lungo termine sono tornati positivi dopo essere stati ampiamente sotto lo zero dalla crisi del 2011.

Le spiegazioni del fenomeno si concentrano su tre aspetti congiunturali: l’aspettativa che le banche centrali saranno eccessivamente prudenti e manterranno i tassi elevati più a lungo di quanto incorporato nelle aspettative del mercato fino a qualche mese fa; la necessità dei governi di emettere tanto debito pubblico per finanziare i programmi di sostegno all’economia, la transizione ambientale e le spese militari legate ai maggiori rischi geopolitici; e il rischio che l’abbandono del tetto ai tassi sul debito pubblico deciso dal Giappone induca gli investitori locali a vendere la grande quantità di titoli in dollari ed euro detenuti per spostarsi su quelli in yen.

Tutti fattori che hanno contribuito all’aumento dei tassi a lunga, ma che trascurano un elemento strutturale e persistente dell’aumento del costo reale del credito.

Il «savings glut» ovvero l’eccesso di risparmio globale dovuto a una carenza di domanda, di opportunità di investimento, di innovazione e crescita della produttività, è stata la teoria più usata per spiegare il lungo periodo di tassi, crescita e produttività inferiori al trend, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, estesasi all’Europa nel 2011, e continuata con la pandemia.

L’economista Ken Rogoff ha offerto una spiegazione diversa e più convincente: il 2008 avrebbe avviato quello che definisce un «super ciclo del debito» e che la pandemia ha solo procrastinato; bassi tassi reali e bassa crescita non sarebbero dovuti a una carenza di domanda, innovazione e opportunità di investimento, ma alla necessità di riassorbire l’eccesso di debito.

Vantaggio Usa

L’aumento odierno dei tassi reali a lungo termine segnalerebbe l’aspettava che innovazione tecnologica (basti pensare all’AI, e a tutte le discontinuità che apporterà in molti settori), opportunità di investimento (transizione energetica, sicurezza) e produttività (riprogettazione dei sistemi e delle filiere di produzione) torneranno a crescere secondo il trend secolare.

Un’ottima prospettiva per gli USA, e il loro mercato azionario, che hanno le aziende con le dimensioni giuste e attive nei settori meglio posizionati per avvantaggiarsi della fine del «super ciclo del debito».

Non così l’Europa, che procede in ordine sparso, con gli Stati che si sostituiscono al mercato dei capitali nel finanziare l’innovazione, aumentando le diseguaglianze visto la diversa capacità di spesa (la Germania da sola conta per la metà di tutti gli aiuti di stato dell’intera Unione).

Pessima prospettiva per l’Italia, che ha un’economia sbilanciata verso aziende sottodimensionate nei servizi e nella manifattura tradizionale, e verso aziende nei servizi di pubblica utilità, gestori di infrastrutture, banche e assicurazioni, che sono poco innovatrici, e prevalentemente utilizzatrici di tecnologie di terzi. Inoltre, se i tassi reali a lungo termine superano la crescita potenziale del paese, l’inflazione non aiuta a ridurre l’onere del debito pubblico che, in assenza di aumenti di tasse o tagli di spesa, è destinato a crescere indefinitamente: e oggi il rendimento reale del Btp a 15 anni indicizzato emesso a maggio rende il 2,2 per cento (superiore al 2,1 dell’equivalente americano), ben oltre la capacità di crescita italiana.

L’avversione ideologica verso i capitali esteri, e in generale la finanza e l’integrazione con il resto d’Europa di questo Governo, già stigmatizzata su queste colonne (il tetto sul valore dei crediti deteriorati è l’ultima trovata) appare dunque doppiamente incomprensibile e suicida.

Pericolo Cina

La teoria del «super ciclo del debito» aiuta anche a capire la crisi della Cina, la cui crescita impetuosa, basata sul settore delle costruzioni (infrastrutture e abitazioni civili) si è basata sul debito: le famiglie si sono indebitate con le banche per comprare case ancora da costruire e le imprese di costruzione per comprare i terreni dalle autorità locali.

Un meccanismo che funziona fino a che i prezzi degli immobili continuano a salire e le vendite ad aumentare; ma destinato a finire, innescando l’insolvenza dei costruttori, la crisi delle famiglie indebitate, delle banche finanziatrici e degli enti locali privati degli introiti dei terreni.

A differenza degli Usa nel 2008, le famiglie cinesi cercano di ripagare i debiti, anche se spesso la casa è ancora da costruire, perché il sistema impone loro di dare tutti i propri beni in garanzia. Ne consegue il crollo dei consumi privati e della fiducia, e un aumento del risparmio precauzionale. Gli investimenti in infrastrutture hanno ormai un rendimento insufficiente per il tanto ammontare di capitale accumulato. Inoltre l’ostracismo del Partito verso le aziende internet, e dei capitali stranieri che le avevano finanziate, ha messo in crisi uno dei settori in maggior crescita, col risultato che la disoccupazione giovanile ha superato il livello record del nostro meridione. Come contromisura, il Partito ha soppresso la pubblicazione del dato.

Mal di export

La teoria del «super ciclo» ci dice che, alla fine, l’innovazione e l’economia cinese torneranno a crescere, anche se non ai tassi del passato. Ma ci vorrà molto tempo. Intanto la Cina, alle prese con una carenza di domanda interna, punta su quella estera, creando un problema a paesi come Italia e Germania il cui export netto è stato una delle principali fonti di crescita: così il disavanzo commerciale italiano verso la Cina in 10 anni è passato da 13 a 41 miliardi (da 5 a 13 quello tedesco). Un deficit che si somma a quello con l’Opec aumentato da 6 a 29 miliardi, e che nei prossimi anni aumenterà dovendo assorbire l’import di energia ex-Russia, mentre rimane invariato vicino allo zero quello intra europeo.

Di fronte a un simile cambiamento di scenario, mi sorprende come tutta l’attenzione del Governo sia invece oggi dedicata alla legge di bilancio, ratifica del Mes, dilazione del Pnrr e nomina del sostituto di Panetta in Bce. Insomma, il buio oltre la siepe.

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