Il governo vuole varare la grande riforma organica del sistema tributario che il Paese attende da decenni, per razionalizzarlo e semplificarlo. E tanto per cominciare, introduce una nuova tassa ad hoc, disorganica, che viola i principi ispiratori della sua stesse riforma, aumenta la complessità del sistema, è inefficiente per le casse dello Stato, crea incertezza per gli investitori, aumentando la percezione del rischio Italia, ed è fonte dell’ennesimo contrasto con le istituzioni europee. Difficile immaginare che una sola tassa riesca a fare tutto questo; ma con quella sugli extra-profitti delle banche il Governo Meloni ci è riuscito.

Le critiche, i commenti, e le proposte di modifica hanno avuto ampio rilievo: ma messe assieme, danno il quadro preoccupante di un Governo in confusione, dove la demagogia prevale su qualsiasi logica economica.

Si parte col botto: la tassa viene annunciata a sorpresa non dal Ministro dell’Economia, o dal suo Vice, Maurizio Leo, che guida la riforma tributaria, ma dal Ministro delle Infrastrutture Salvini, che con le tasse non c’entra nulla e che offre una motivazione pretestuosa: il Governo tasserebbe le banche, che non hanno aumentato la remunerazione dei depositi, per aiutare gli italiani in difficoltà con il mutuo a tasso variabile. Tace su quale sia questo aiuto, perché l’unico obiettivo della tassa è solo far cassa. Ma non importa: per il consenso basta dire «extra-profitti» per far credere di tassare gli avidi capitalisti per aiutare il popolo.

Extra-profitto è però un concetto preciso, che si applica a un monopolio o all’abuso di una posizione dominante; le banche però operano in concorrenza e stanno solo beneficiando di una contingenza positiva (aumento dei tassi Bce), che segue la contingenza dei tassi negativi, e che ha pesato sui loro bilanci in quanto non potevano imporre ai depositanti una remunerazione negativa. Al punto che la Bce è intervenuta a sostegno delle banche remunerando le loro riserve a un tasso superiore a quello dei suoi finanziamenti. Se quelli di oggi sono extra-profitti da tassare, le banche andavano prima sussidiate per la contingenza negativa.

L’arbitrio

L’impatto delle contingenze positive è insito nell’economia di mercato, tassarli di più se superano un dato livello è un arbitrio, quindi è incostituzionale come stabilito dalla Corte Costituzionale a proposito di una tassa analoga sulle imprese energetiche introdotta dal Governo Berlusconi nel 2008; chiamata Robin (Hood) Tax, a proposito di demagogia.

La conferma che la tassa sia un arbitrio del Governo viene dal provvedimento stesso in quanto ha inizialmente stabilito «normale», e quindi non tassabile, una crescita del margine di interesse del 3 e 6 per cento (per il 2022 e 2023), per poi aumentarlo al 5 e 10 per cento nel giro di 24 ore.

L’arbitrarietà della tassa potrebbe poi essere contagiosa: se si deve aumentare il gettito, perché non tassare l’industria farmaceutica che ha beneficiato del Covid, o le società energetiche quando aumenta la benzina, o la moda se i cinesi tornano a spendere come una volta?

Demagogica è poi l’idea di aiutare chi oggi ha un mutuo a tasso variabile, nonostante per anni abbia beneficiato di un costo risibile; una beffa per chi, proprio per cautelarsi dai rialzi, aveva pagato di più indebitandosi a tasso fisso. Poco importa che Spagna e Ungheria, agli antipodi dello spettro politico, abbiano adottato una tassa simile: non abbiamo l’esclusiva della demagogia.

L’annuncio della tassa ha fatto crollare i titoli bancari, cogliendo di sorpresa il Governo che è corso ad aumentare il margine di interesse « normale » , e porre un tetto all’imposta pari allo 0,1 per cento delle attività, un parametro che col profitto non c’entra, a conferma dell’arbitrarietà. Il Governo, o non sa fare i calcoli oppure non conosce come funzionano i mercati: con una montagna di debito pubblico da finanziare, non so cosa sia peggio.

La tassa sugli extra-profitti viola tutti i principi che dovrebbero guidare la riforma tributaria. È retroattiva in quanto si basa sul margine di interesse del 2021. Non c’è la certezza della base contributiva perché dipende dall’esercizio 2023, ancora in corso. Si basa sul margine di interesse, ignorando commissioni, accantonamenti e svalutazioni che concorrono alla formazione dell’utile, la base dell’imposta del reddito societario. Tassa quindi gli utili di ogni banca in modo differente, e la redditività sul capitale delle banche diversamente da quello delle altre imprese: una doppia violazione del principio di equità.

Discrimina, penalizzandole, le banche italiane rispetto alle estere (e quelle straniere con un banca in Italia, e viceversa), un ostacolo all’Unione Bancaria e al mercato unico dei capitali, parte di trattati di cui siamo firmatari.

Con un introito inizialmente stimato in circa 4 miliardi, ha fa crollare di 10 la capitalizzazione delle banche. I vari correttivi ridurranno il gettito a meno di 2 miliardi, ma non l’incertezza, e il premio per il rischio per chi investe in Italia. Si riduce anche valore di Mps che lo Stato deve vendere, poco dopo averne sottoscritto l’aumento di capitale per 1,6 miliardi. Penalizza le banche alla vigilia di un forte rallentamento economico, che aumenta il rischio sofferenze, riducendo così la loro propensione a erogare credito, e in ultima analisi la solidità del sistema.

Per questo la BCE ha espressamente criticato la tassa, causa dell’ennesimo contrasto con le istituzioni europee. Proprio quando a capo della vigilanza bancaria unica è stata nominata Claudia Buch, già numero due della Bundesbank, un’istituzione non proprio amichevole nei confronti dell’Italia. Il tutto per raccattare 2 miliardi: è l’immagine di un Governo che sta raschiando il fondo barile per coprire il deficit. E non è rassicurante.

Gli emendamenti

Fatta la tassa, il Governo è corso ai ripari, come si è visto. Da allora fioccano proposte ed emendamenti che vogliono ridurre il gettito dell’imposta, mantenendo però le distorsioni e l’inefficienza della tassa. Si chiede la sua detraibilità da Ires e Irap, ovvero le Stato restituisce alle banche, sotto forma di minori imposte future, la tassa di oggi.

Diventerebbe una specie di prestito temporaneo forzoso, che crea il problema di coprire il buco per la casse pubbliche del minor gettito futuro; col rischio che lo Stato si inventi domani un’altra gabella, o che il temporaneo diventi permanente. C’è chi chiede l’esenzione per Casse Rurali e piccole banche, aggravando la violazione del principio di equità. Un’indiscrezione del Corriere ha ipotizzato le attività pesate per il rischio (Rwa) come base imponibile. Ma gli Rwa sono anche la base per i coefficienti patrimoniali: in questo modo la tassa diventerebbe un’imposta sul patrimonio delle banche, in aperto contrasto con le prescrizioni della Bce che stabilisce i coefficienti di patrimonializzazione.

L’Abi vorrebbe l’esclusione dei titoli di stato dal calcolo del margine, senza fornire alcuna valida motivazione (i depositi sono fungibili nel finanziamento di titoli e crediti); sembra piuttosto un pizzino visto che mille dei 2,800 miliardi di debito pubblico sono detenuti da banche e istituzioni finanziarie. Una motivazione valida ci sarebbe: l’aumento dei tassi ha aumentato il margine ma anche causato minusvalenze non realizzate sui titoli di stato detenuti, che però non appaiono perché immobilizzati. Meglio non parlarne visto lo sconquasso che queste minusvalenze hanno causato alle banche americane.

Di fronte a tale disastro dovrebbe sorprendere che la premier Giorgia Meloni sia corsa a intestarsi la paternità della tassa, rubando la scena a Salvini. Non se si considera che i sondaggi mostrano come un’alta percentuale di italiani sia generalmente favorevole a tassare «i ricchi capitalisti » e battere i pugni sul tavolo in Europa: evidentemente per Meloni la politica basata sulla ricerca dei consensi prevale su qualsiasi logica economica. Ma con la stabilità dei conti pubblici nuovamente in bilico, il sogno del Pnrr che svanisce, e il fantasma della stagflazione che è riapparso, rischia di portare il Paese sull’orlo del burrone.

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