C’è la grana del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità approvato dal resto d’Europa ma demonizzato da Fratelli d’Italia e Lega. E poi il rinnovo del Patto di stabilità, che incombe sui conti pubblici di Roma. Non bastasse questo carico di problemi, ieri Giancarlo Giorgetti è sbarcato a Santiago de Compostela per la riunione dell’Eurogruppo inseguito dalle cattive notizie del giorno prima: l’ennesimo rialzo dei tassi deciso dalla Bce e le nuove deludenti previsioni su inflazione e crescita.

All’ombra della gigantesca cattedrale dedicata a San Giacomo, patrono della Spagna, non tira aria di sconti per l’Italia, come si è subito intuito dalle dichiarazioni di Paschal Donohoe, il presidente dell’Eurogruppo che ha ricordato a Giorgetti l’importanza di una rapida approvazione del Mes anche da parte dell’Italia, unico paese Ue che si è finora chiamato fuori dall’accordo.

Italia contro tutti

Dal Meccanismo di stabilità – ha detto Donohoe dipende “la forza della rete di sicurezza dell’Eurozona”, dato che tra l’altro prevede il cosiddetto backstop o paracadute per il fondo di risoluzione che interviene nei casi di dissesto bancario. Ieri il ministro di Roma ha provato a illustrare ai colleghi responsabili delle Finanze degli altri paesi membri dell’Unione lo stato dell’arte del dibattito nel parlamento italiano, un dibattito bloccato dalla netta opposizione al Mes dei leghisti.

Giorgia Meloni, per anni sulle stesse posizioni di Matteo Salvini, è invece alla disperata ricerca di una scappatoia formale che le consenta, senza smentire platealmente sé stessa, di dare via libera all’adesione evitando ulteriori pericolosi strappi con i partner europei. Una manovra, quest’ultima, che probabilmente richiederà tempo, così come appare ancora lontana la riforma del Patto di stabilità, riforma di vitale importanza soprattutto per l’Italia, che non può permettersi la semplice reintroduzione delle vecchie regole su deficit e debito, sospese ai tempi della pandemia.

Il negoziato sul Patto

Anche la Commissione di Bruxelles preme per un accordo su criteri nuovi, al pari, per esempio, della Francia, ma i governi si muovono in ordine sparso e sembra difficile trovare una sintesi tra chi, come l’Italia, chiede che vengano esclusi dal computo gli investimenti per la transizione ambientale e la difesa, e il fronte del Nord guidato dalla Germania che invece insiste per fissare comunque un percorso di graduale rientro dal debito per i paesi membri. La Spagna, a cui spetta la presidenza di turno del Consiglio Ue, cercherà di trovare una mediazione entro fine anno, quando in teoria dovrebbe tornare in vigore il vecchio Patto.

Difficile che già a Santiago si arrivi a progressi significativi nella trattativa. Più probabile che questo vertice serva a imbandire il tavolo del negoziato che verrà sviluppato nelle prossime settimane, in vista del vertice Ecofin del 16 ottobre. Il giorno prima l’Italia dovrà presentare a Bruxelles la bozza del documento programmatico di bilancio, che farà seguito alla Nadef, la Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza, da approvare entro il 27 settembre.

Esame a Bruxelles

Sono questi i due passaggi fondamentali su cui il governo di Roma si gioca la credibilità in Europa. Una partita già molto difficile in partenza, che diventa giorno dopo più difficile da giocare a causa di una congiuntura economica in rapido e inesorabile peggioramento, L’aumento dell’1 per cento del Pil sembra ormai un obiettivo irraggiungibile, ma problemi ancora maggiori si profilano per il 2024, che nel Def di primavera era ottimisticamente previsto in crescita dell’1,5 per cento. Secondo la Commissione Ue, invece, l’Italia arriverà al massimo allo 0,8 per cento, un dato rivisto al ribasso dall’1,2 per cento indicato in aprile, mentre le stime formulate da Ocse e Fondo monetario non vanno oltre l’1-1,1 per cento.

Per effetto di questi numeri, il governo si trova ad affrontare un muro ancora più alto sul fronte dei conti pubblici. Nel 2024, infatti, il governo si era impegnato a rispettare un disavanzo sul Pil pari al 3,7 per cento, ma se il prodotto interno cresce meno di quanto previsto sei mesi fa, anche il deficit tende a prendere il volo. Ecco perché Giorgetti deve gestire la manovra più complicata da molti anni a questa parte. Da una parte mancano le risorse per far quadrare i conti e mantenere almeno in parte le molte promesse elettorali dei partiti di maggioranza. Dall’altra il Pil in frenata alimenta il pessimismo sul futuro prossimo.

Effetto Bce

Come se non bastasse, giovedì la Bce ha alzato di nuovo i tassi d’interesse, e se il costo del denaro aumenta anche l’economia rallenta il passo. La produzione industriale, termometro sensibile della crescita, a luglio è già calata dello 0,7 per cento rispetto a giugno. Settori importanti come la meccanica fanno segnare importanti contrazioni, meno 2 per cento nel secondo trimestre rispetto al 2022, mentre anche Brescia, uno dei poli produttivi più importanti d’Italia manda segnali negativi, con l’export in calo dell’11 per cento. E per l’ultimo semestre dell’anno quasi nessuno si aspetta un trend in risalita. Anzi, nella migliore delle ipotesi si potrebbe tenere botta con una crescita zero, dopo un secondo trimestre sotto zero (meno 0,4 per cento).

In questo caso il 2023 si chiuderebbe con il risultato già acquisito nei primi sei mesi, una crescita dello 0,7 per cento. Troppo poco, per dare slancio a una rimonta nel 2024, quando continueranno a pesare, tra l’altro, i tassi d’interesse ai massimi da vent’anni, visto che la stessa Bce sembra escludere tagli nel breve termine.

Per il governo è difficile immaginare uno scenario peggiore. Soprattutto mentre Roma rischia di alienarsi il sostegno dell’Europa tirando troppo la corda su Mes e Patto di stabilità.

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