L’organizzazione industriale sviluppatasi negli ultimi due decenni è stata molto complessa con un’articolazione minuta dei processi produttivi, una straordinaria dispersione geografica delle catene di valore (filiere) per diminuire i costi, e un generale consenso sul “just in time” per ridurre stock e costi di conservazione.

Dal 1990 ad oggi la circolazione dei pezzi di ricambio e delle componenti è giunta a rappresentare oltre la metà del commercio mondiale, come a dire: il prodotto fatto in casa non esiste quasi più. Questo sistema “a pezzi” ha permesso a nuovi paesi di inserirsi nella catena produttiva globale creandosi un proprio spazio industriale/manifatturiero, oltre il reddito prodotto dalla vendita delle materie prime.

Globalizzazione lenta

Questo primo periodo della globalizzazione subisce una prima frenata con la crisi finanziaria del 2008, quando la crescita inizia a marcare il passo. L’indice dell’apertura dei mercati diminuisce e si inizia a parlare di “slowbalization”.

Secondo l’economista Françoise Nicolas dell’Ifri, il Covid non ha fatto che accentuare un rallentamento iniziato prima, soprattutto a causa dell’aumento delle disuguaglianze. Il mercato stesso non apprezza l’allargarsi della forbice tra ricchi e poveri con la conseguente contrazione del ceto medio produttivo e consumatore.

Alcuni esperti segnalano che la globalizzazione ha ridotto la sua velocità anche a causa della mancanza di grandi salti tecnologici, come fu l’invenzione del container negli anni Settanta e l’introduzione delle tecnologie dell’informazione e comunicazione negli anni Novanta.

Disuguaglianze e fragilità

Ciò che preoccupa gli analisti sono le fragilità del sistema dovute all’ampliarsi delle disuguaglianze soprattutto quando ciò provoca esclusioni non immediatamente colmabili (si crea meno di quanto si distrugge).

La globalizzazione tende a dividere il pianeta in zone utili e inutili, creando vuoti economici che poi si mutano in pericolosi vuoti geopolitici. Si sente la necessità di politiche pubbliche in grado di ammortizzare gli shock provocati da queste trasformazioni del mercato globale (come ad esempio il reddito di cittadinanza) anche per reagire all’espandersi delle proteste (come ad esempio i gilets jaunes).

Armi e contestazioni

Dopo il 2008 anche nel mondo ricco si crea la sindrome dei perdenti della globalizzazione e le contestazioni si allargano. Se queste reazioni potevano essere previste, colpisce l’effetto boomerang che la globalizzazione ha sull’interdipendenza. Quest’ultima era stata presentata come un portato benefico che avrebbe diminuito contenziosi e conflitti.

Avviene l’opposto: la strumentalizzazione di queste interdipendenze a fini competitivi. Ogni connessione e ogni nodo della rete del mercato globale può ridiventare un collo di bottiglia, come ora si vede davanti alle coste della California. È il sistema stesso a provocare questi effetti ma anche le decisioni politiche.

La Belt and Road Initiative cinese (BRI) diventa un’arma geopolitica, favorendo chi ne fa parte ed escludendo chi rimane fuori. Il fatto che le economie delle due superpotenze siano troppo collegate fra loro diviene un pericolo e nel contesto della crisi pandemica ciò pare ancor più pressante.

La doppia dipendenza

A causa del Covid alcune interconnessioni sono lette come minacce: il fatto che l’Europa si scopra sprovvista di mascherine (ormai prodotte in Asia), è percepito addirittura come una falla della sicurezza nazionale, così come per il resto del materiale sanitario.

La corsa al vaccino dimostra quanto sia necessario avere “in house” la ricerca medica e non solo l’assemblaggio (come per l’Italia): l’Europa manifesta la sua debolezza sia in velocità (i russi sono i primi a produrre un vaccino, seguiti dai cinesi); sia in efficacia (i vaccini migliori sono quelli finanziati dagli Stati Uniti).

Si capisce che le catene del valore o le filiere inducono una doppia dipendenza: dal lato dell’offerta (per l’approvvigionamento delle componenti fabbricate fuori) ma anche della domanda (per l’utilizzo all’estero delle componenti prodotte in proprio). Non a caso la Cina di Xi Jinping smette proprio in questi anni di voler diventare la “fabbrica del mondo” e inizia una riconversione che la porterà ad avere un mercato interno del tutto simile a quello degli Stati Uniti, cercando di dipendere il meno possibile dal resto del mondo.

Il rientro

Si tratta di una sfida strategica anche se quasi impossibile vista la drammatica necessità che Pechino ha di energia pulita (cioè non da carbone) e di materie prime. Dappertutto la perdita di controllo su produzioni ritenute essenziali crea un problema e la scelta di basare tutto sulla riduzione dei costi si rivela un errore, come dimostra l’aver delegato all’estero le produzioni del settore farmaceutico e sanitario.

La dipendenza eccessiva mette paura e il nuovo carattere strategico di alcune produzioni crea nuove vulnerabilità. In definitiva la crisi pandemica mette in luce che già da molto tempo l’Occidente dipende dalla Cina. Le conseguenze di tale situazione sono il ritorno dell’intervento dello stato sia per ciò che concerne i rimedi delle conseguenze dolorose della crisi, sia per ciò che riguarda il sistema economico stesso.

Si ampliano i settori giudicati strategici così come la loro gestione secondo nuove regole di sicurezza nazionale. Viene il tempo del reshoring, cioè del rientro di parti delle produzioni prima delocalizzate. La politica di Donald Trump si basava (per motivi ideologici) su tale dottrina con l’obiettivo di sostenere il ceto medio produttivo americano troppo impoverito. L’errore di Trump è stato di non aver considerato l’aspetto sanitario della crisi, finendo per mettere in campo una politica meno rassicurante di quanto auspicato.

Filiere che cambiano

Allo stesso tempo le filiere si vanno trasformando: l’obiettivo non è tanto di accorciarle ma di farle passare attraverso paesi amici o alleati. Ecco perché India, Australia e Giappone rilanciano il Quad, subito dopo aver creato un’iniziativa di filiera comune ai tre per diminuire l’impatto cinese.

Pechino capisce subito che tale inversione sta rafforzando una rete di resistenza alle sue politiche e reagisce male. Tanto basta ai tre per rispolverare la vecchia idea di scenario “Indo-Pacifico” assieme agli Stati Uniti (al prezzo di estromettere i sommergibili francesi…).

Ovviamente affinché tali rovesciamenti abbiano successo devono convincere e coinvolgere anche il settore privato occidentale, abituato a muoversi in totale autonomia. Le pressioni dell’amministrazione Trump sulle transnazionali Usa sono state forti ma concentrate solo su pochi settori a manodopera intensiva come l’automotive.

Con Joe Biden ci si rivolge alle imprese ad alta tecnologia, meno sensibili al reshoring e ad ogni altra forma  di concentrazione e accorciamento delle filiere. Mentre in Cina si tratta di imprese controllate per lo più dallo stato, il rallentamento della globalizzazione apre in occidente una nuova sfida tra stato e mercato: da una parte i privati occidentali vogliono essere protetti dai propri stati; dall’altra non vogliono essere costretti a minor autonomia né a fare la loro parte (vedi il caso – micro ma valido – di Confindustria).

Una nuova fase

Per gli stati l’obiettivo principale è la sicurezza nazionale mentre per le imprese rimane l’efficacia e la riduzione dei costi: è tra questi due corni che va trovata una non facile mediazione, soprattutto quando si parla di protezione dei dati e dei brevetti cioè di imprese Gafa (Google, Amazon; Facebook, Apple ecc.).

In teoria per ottenere risultati soddisfacenti si dovrebbero duplicare le filiere e diversificare i fornitori. La guerra dei tubi (oleodotti come il raddoppio del NordStream) dimostra che quando manca l’alternativa, tutta la catena diviene vulnerabile.

L’attuale crisi del prezzo del gas, che aggrava le tensioni con la Russia, è una conseguenza di tale insufficienza così come lo sono le tensioni con la Cina a proposito di Taiwan, considerando che l’isola produce oltre la metà dei semiconduttori globali. Il rallentamento della globalizzazione non ci riporta al mondo di prima ma ci introduce in una nuova fase non scevra di rischi nella quale la politica internazionale dovrà agire con lucidità. 

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