Nell’era dello shareholder capitalism, ossia l’accumulazione di capitale di matrice finanziaria da parte di piccoli e grandi investitori tramite aziende quotate in mercati aperti, spesso le assemblee degli azionisti sono state decantate come il nuovo tempio della democrazia. Diventano piccoli parlamenti, dove gli investitori possono anche decidere le sorti di amministratori e manager. Nella realtà, questi incontri, che avvengono in primavera tranne circostanze straordinarie, si sono ridotti spesso a consessi stanchi e retorici, dove pochi azionisti con tante deleghe danno velocemente il via libera a bilanci e piani industriali, per altro già discussi in precedenza con i grandi fondi di investimento internazionali che dominano l’azionariato.

In particolare in Italia, ad eccezione dei casi di gravi crisi aziendali che hanno infuocato le assemblee con la presenza di schiere di piccoli azionisti inferociti – ad esempio, i recenti scandali nel settore bancario – o di scontri tra blocchi di azionisti, come i recenti duelli in assicurazioni Generali o Mediaset, le assemblee degli azionisti hanno visto una bassa partecipazione e poche discussioni veraci sul futuro di banche e imprese.

Eppure negli ultimi anni qualcosa è iniziato a cambiare, prima all’estero e poi dalle nostre parti. Attori della società civile organizzata e portatori di interessi pubblici e non finanziari hanno comprato azioni e regolarmente presenziato queste assise, per portare le loro istanze o dar voce a coloro che subiscono direttamente le ripercussioni dell’operato di grandi imprese multinazionali e gruppi finanziari.

Le assemblee offrono la possibilità di confrontarsi a volto scoperto direttamente con i top manager delle società e chiedere ragione del loro operato sull’ambiente e i diritti umani, a prescindere dai dividendi distribuiti.

Un nuovo rinvio

Un meccanismo certo parziale e limitato, ma che cerca di porre rimedio alla totale mancanza di accountability di chi gestisce gruppi industriali e finanziari (Intesa Sanpaolo e Unicredit in primis), vista l’inerzia o l’atteggiamento succube dei governi, che in alcuni casi, ad esempio in Italia, sono anche azionisti silenti e avidi di dividendi delle stesse imprese, come nel caso di Eni, Snam, Enel, Saipem e Leonardo, solo per menzionare le più importanti. 

Nel nostro paese sono ben poche le possibilità di avere scambi franchi e diretti con gli amministratori delegati delle grandi società per azioni. Non è certo un contesto favorevole come quello dei paesi nord europei dove, ad esempio, sui temi della transizione energetica gli amministratori delegati di società quali Shell devono oramai accettare il confronto pubblico, con tutte le conseguenze del caso.

Ebbene, nel contesto pandemico, che sembra finalmente volgere al termine al punto che il governo sta considerando di decretare la fine dello stato di emergenza il 31 marzo prossimo, lo stesso governo italiano ha inserito nel decreto legge Milleproroghe del 30 dicembre anche l’estensione fino a luglio 2022 della possibilità per le società quotate di tenere le proprie assemblee degli azionisti a porte chiuse per il terzo anno consecutivo.

In questo modo l’interazione con gli azionisti sarà ancora una volta possibile solamente tramite la figura del delegato unico o ponendo domande per iscritto prima dell’incontro. Una mossa sorprendente quella del governo guidato da Mario Draghi, che è sempre stato un paladino della trasparenza dei mercati come principio fondante per un loro funzionamento efficiente.

Porte chiuse

Contrariamente a quanto avvenuto in nord Europa e nord America, negli ultimi due anni i gruppi industriali e finanziari italiani - con l’eccezione di Generali nel 2021 - non hanno permesso agli azionisti neanche di connettersi online per assistere all’incontro, men che meno di interagire con il senior management e i consigli di amministrazione.

Suona come un paradosso che la Dad non sia stata implementata da società che certo non hanno problemi di investimenti digitali e nell’information technology. I più legalistici hanno obiettato che, secondo la legge italiana - all’occorrenza sempre antiquata e conservatrice - non sarebbe possibile il voto online. Ma questa sembra più una scusa per non rendere accessibile gli incontri a questi azionisti “critici” che di sicuro non avrebbero influito sull’esito delle votazioni assembleari, visti i limitati pacchetti di voti a disposizione, ma avrebbero solo voluto porre domande più scomode a cui il management avrebbe dovuto rispondere, con tanto di notaio a ratificare.

Per questo l’associazione ReCommon ha scritto al presidente del Consiglio Mario Draghi, chiedendo che quest’anno si ponga fine a questa ingiustificata chiusura delle assemblee. È paradossale che tutto il sistema economico italiano oramai sia ripartito, ma non la riapertura delle assemblee di quei gruppi industriali e finanziari che che compongono lo stesso sistema.

È davvero il caso che il governo - o il parlamento che sta convertendo in legge il decreto - faccia subito retromarcia e riveda l’estensione dell’esenzione per quanto riguarda il 2022. Questo sì, sarebbe un buon segnale per il sistema economico e democratico italiano.

© Riproduzione riservata