La mattina di Sabato 29 luglio cercavo di ricostruire nei dettagli una strana scena, un ricordo recente forse, o un sogno. Guardando dalla finestra, vedo in strada un uomo accovacciato a terra; china su di lui, un'altra persona pare toccargli la testa. Fa sì caldo, ma non tanto da farti crollare a terra. Così scendo incuriosito per capire cosa succede. Avvicinandomi riconosco facilmente nell'uomo a terra uno che gira sempre intorno a casa mia, uno straniero, forse indiano, forse del Bangladesh. Pare anziano ma potrebbe avere 50 o 70 anni, è difficile distinguere l'avanzare dell'età dalla semplice fatica di vivere; e lui vive in strada, vagando nel quartiere da anni, dormendo spesso sulle panchine. A volte dà un po' fuori di matto; quando beve, il che accade spesso, urla nella notte parole incomprensibili, ma disperate. Come tutti nel quartiere ci sono abituato, solo i bambini, sentendolo, domandano cosa succede; ci si contenta di rispondere che non possiamo far niente, quest'uomo vuol vivere così.

Ogni tentativo di avvicinarlo, di parlarci, di capire cosa lo angoscia, perché è arrivato a quel punto, si infrange contro un muro: l'impossibilità di mettersi in relazione con lui, che non parla l'italiano. Io, come tutti, non capisco quel che dice o biascica. E per me la cosa purtroppo finisce lì. Mi avvicino al duo; l'altro uomo, che non conosco, con un rasoio a pile gli sta tagliando i capelli o, per meglio dire, rasandoli a zero. A terra vedo varie pile necessarie a sostituire quelle che via via si scaricano, certo non nuove di zecca. Dai suoi gesti traspare un affetto discreto; con la mano gli carezza delicatamente la testa e gli parla tranquillo, mentre l'altro fa segni di assenso. Non sento cosa dice, ma è evidente la sua capacità di stabilire con l'altro un rapporto umano; io, come credo tutti nel quartiere, non ci riesco.

A quel punto mi avvicino e vedo bene la persona in piedi; non ha l'aria di passarsela bene. La sua dentatura è malmessa, l'abbigliamento sommario e liso, ai piedi un paio di vecchie ciabatte di plastica; nell'insieme, uno che fatica a campare la vita. Ciò mi incuriosisce ancor di più e mi domando cosa lo unisca a quel “barbone”. Gli chiedo se vengono dello stesso paese e lui mi risponde «No, io vengo dal Marocco». Non so perché, non gli chiedo da dove viene la persona alla quale sta affettuosamente rasando i capelli. Vorrei capire come riesca a stabilire un rapporto con quel “barbone”. «Qualche parola d'italiano la conosce, con me lo parla, ci capiamo comunque». La vera risposta però me la dà con gli occhi; lo guarda infatti, con uno sguardo che esprime il piacere, quasi l'orgoglio, di chi riesce, pur vivendo una vita dura, a trovare tempo e voglia di aiutare un reietto della nostra società. Di essere lui, un penultimo che probabilmente campa di espedienti, non sempre legittimi, a sorreggere e confortare l'ultimo, dagli altri dato per perso.

Quando ho nitidamente ricomposto questo fatto, o sogno, ho pensato a quante volte il sollievo a chi è in difficoltà ricade sulle spalle di chi se la passa appena un po' meglio; qui, nella nostra società multietnica, di solito chi sta peggio di tutti viene da altri paesi, ed è estraneo alla formazione religiosa di gran parte degli italiani. Come certo le due persone sulla strada.

Poi ho aperto la cronaca milanese del Corriere; proprio quel giorno, l'arcivescovo di Milano, Mario Delpini, intervistato da Giampiero Rossi, descriveva una città divisa in partes tres; i clienti, i custodi e gli invisibili. I clienti, diceva Delpini, si limitano a consumare la città, «la usano ma non se ne curano», non rispettano i tempi altrui, «pretendono servizi e sono aggressivi, indifferenti a tutto salvo i loro bisogni».

I custodi sono invece, per Delpini, quelli che la città la fanno funzionare, se ne prendono cura, attenti agli altri; notava «...quanto bene si faccia in ogni quartiere, quante iniziative, quante associazioni quante istituzioni sono attive per rendere migliore la vita degli altri».

Gli invisibili, infine, sono «esclusi dalla vita della comunità, in molti casi non si sa come e dove vivono, sono solitudini e desolazioni che non risultano». È soprattutto a loro che va l'aiuto dei custodi.

Quel ricordo (o quel sogno?) è animato da custodi che “non risultano”.

Sarebbe strano aver fatto proprio quel sogno, la notte precedente; pian piano mi sono convinto di non aver sognato. A volte i sogni si realizzano, e le cose belle non stanno solo nei sogni; avevo davvero visto un invisibile farsi custode di qualcuno, ancor meno di lui visibile, arrivando dove tanti volonterosi custodi non arrivano.

Qualcuno capace, magari solo per un momento, di dare una mano nella solitudine, sorreggendo così anche la dignità e la speranza. Un samaritano che si ferma a medicare un ferito da cui noi, troppo indaffarati farisei, ci ritraiamo, come spaventati dalla sua diversità, forse solo dalla sua irrimediabile miseria.
 

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