Per affrontare la “più grande transizione demografica di tutti i tempi” bisogna separare pensioni e assistenza, limitare il più possibile le numerose scappatoie che adesso permettono di lasciare il lavoro in anticipo rispetto all’età pensionabile, bloccare l’anzianità contributiva a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne.

Sono queste le indicazioni del rapporto del centro studi “Itinerari previdenziali” presentato ieri alla Camera.

Un messaggio chiaro, chiarissimo diretto alla politica e in particolare alla maggioranza di governo, che anche nel dibattito sull’ultima manovra finanziaria ha spinto in direzione opposta, nel tentativo di favorire il più possibile le uscite anticipate dal lavoro. Tutto questo in nome del superamento della legge Fornero, come da un decennio predica la Lega.

Promesse di governo

Non si contano, già in questo inizio d’anno le dichiarazioni di Claudio Durigon, sottosegretario leghista al Lavoro, pronto solo pochi giorni fa a garantire che «Quota 41 si farà». Dopo aver rinunciato a Quota 100 (eredità dell’esecutivo con i Cinque stelle) poi a Quota 102 (varata ai tempi di Draghi), la maggioranza ora al governo non ha potuto fare a meno di ripiegare su Quota 103 (62 anni di età e 41 di contributi), ma inasprendo di molto i requisiti per accedere a questo canale privilegiato d’uscita. E lo stesso vale per Opzione Donna e Ape sociale.

Giorgia Meloni promette che il 2024 sarà l’anno di una riforma “strutturale” delle pensioni, ma intanto il suo governo si è finora distinto per una serie di misure tampone che hanno come unico obiettivo quello di fare cassa. Sul futuro del sistema incombe un declino demografico, che vede aumentare il numero degli anziani in confronto alla popolazione attiva, mentre la media delle retribuzioni diminuisce, con conseguente calo del valore dei contributi.

Il peso dell’assistenza

Che fare, dunque? Il rapporto di Itinerari previdenziali, presieduto da Alberto Brambilla, disegna un quadro che mette in evidenza aspetti di solito trascurati nelle analisi sulla macchina previdenziale. La prima indicazione, la più importante, è che negli ultimi è cresciuta soprattutto la spesa cosiddetta assistenziale. Si tratta di prestazioni come assegni sociali, invalidità civile, integrazioni al minimo, pensioni di guerra. Tutti questi costi a carico delle casse pubbliche vengono coperti con la fiscalità generale, cioè con le nostre tasse, e solo in minima parte grazie ai contributi versati nel corso della vita lavorativa.

Ebbene, secondo quanto calcolato da Itinerari previdenziali, la spesa assistenziale è più che raddoppiata nel decennio 2012-2022 passando da 73 a 157 miliardi, a favore di 6,6 milioni di pensionati, il 41 per cento del totale dei pensionati, che in Italia sono 16,1 milioni. Nello stesso arco di tempo la spesa previdenziale propriamente detta è aumentata di 37 miliardi. Secondo Brambilla, ogni intervento di riforma deve tener presente questo dato e separare previdenza da assistenza. Si scopre così che la spesa pensionistica vale 247 miliardi, cioè il 12,97 per cento del Pil, una percentuale in linea con la media europea. Il problema, però, è che, come segnala Brambilla, Roma ha comunicato a Bruxelles un valore ben più alto, il 16,7 per cento. Ed è questo il numero che in sede europea viene considerato quando si valuta lo stato di salute dei conti pubblici italiani.

Dati alla mano, però sembra che il boom della spesa assistenziale abbia ottenuto risultati non proprio soddisfacenti, visto che tra il 2012 e il 2022 le persone in povertà assoluta sono aumentate da 3,5 a 5,5 milioni. «Bisogna spendere meglio», sostiene Brambilla. Già nel breve termine, però, la minaccia più grande per l’equilibrio del sistema è rappresentata dallo scarso tasso di occupazione italiano, pari al 60,1 per cento in base alle statistiche del 2022 Siamo all’ultimo posto in Europa, molto distanti da paesi come la Germania (76 per cento) e Olanda (81 per cento). E la crescita occupazionale di questo ultimo anno ha accorciato di pochissimo le distanze. Questo fatto, insieme all’evasione fiscale, incide sul gettito tributario, in primo luogo quello dell’Irpef, per lo Stato diventa quindi ancora più difficile far fronte alla spesa assistenziale. «Una spesa che va meglio indirizzata», dice Brambilla, «e allo stesso tempo vanno migliorate le politiche attive del lavoro e aumentati gli investimenti in istruzione”. Tutto questo per incrementare il numero di occupati e il loro reddito, perché in futuro, per effetto del calo delle nascite, la popolazione è destinata a diminuire e verranno quindi a mancare milioni di potenziali lavoratori.

Equilibrio precario

Nei calcoli di Itinerari previdenziali il sistema è destinato a restare in equilibrio per i prossimi anni, visto che il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati supererà di poco quota 1,45 senza superare la soglia di allarme di 1,5. Nei calcoli del governo inseriti nell’ultima Nadef viene però spiegato che il costo delle pensioni per le casse pubbliche è destinato ad aumentare di 64 miliardi entro il 2026, in gran parte per effetto dell’indicizzazione degli assegni previdenziali all’inflazione. Nel solo 2024 l’aumento previsto è del 7,3 per cento. Come dire che quota 41 o altre scorciatoie simili sono destinate a rimanere promesse da spendere al mercato della politica per raccattare voti, niente di più.

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