Il Pnrr dovrebbe far crescere il Pil e quindi migliorare il rapporto tra deficit e Pil, formula indiscussa della sostenibilità del nostro enorme debito pubblico. Lo stesso Pnrr però punta all’efficienza della spesa, non certo sui suoi contenuti sociali. Cioè assume che non basta spendere per crescere, occorre spendere per aumentare la produttività. In termini di sostenibilità del debito, però, rimane legittimo l’interrogativo se sia meglio intervenire sul Pil o sul deficit, cioè far crescere il denominatore della formula o far diminuire il numeratore.

Tuttavia, l’alternativa in realtà non è affatto netta: crescita e deficit sono in qualche misura interdipendenti. Ora, l’Europa con il nuovo Patto di stabilità ci dice che, dopo l’iniezione di risorse con i fondi per il Pnrr, è tempo di agire sul deficit. E non con mano leggera: le prime stime sono una riduzione annua della spesa pubblica dell’ordine dei 10 miliardi o più.

Una vulgata (che potremmo definire “di sinistra”) dice che è invece più importante fare sforzi per far crescere il Pil che non ridurre la spesa. Questo significa assumere implicitamente un effetto keynesiano perdurante che appare problematico.

I paesi frugali, che possiamo definire “di destra”, con cui abbiamo trattato per il nuovo Patto di stabilità, assumono ovviamente che ora sia invece più importante spendere meno. Cioè, tra i due schieramenti, in realtà, la scommessa è sulla velocità relativa dei due effetti.

A sinistra si scommette che se si spende di più “vince” la crescita del Pil (nel rapporto deficit/Pil), se si spende di meno invece “vincono” gli effetti recessivi di questa riduzione. A destra invece si pensa l’esatto contrario.

Gli effetti sociali

Ma vediamo ora gli effetti sociali delle due soluzioni che abbiamo rappresentato (certo semplificando molto). La scommessa sulla maggiore spesa ha costi sociali minori nel breve periodo, ma proprio sui costi sociali è apparso di recente un “terzo incomodo”, che era assente da un ventennio: l’inflazione.

Questa da una parte riduce il debito pubblico in termini reali, ma al prezzo di diminuire il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni. E di conseguenza finisce per comprimere anche i consumi, cosa che a sua volta agisce contro la crescita del Pil. Quindi l’inflazione ha effetti complessivi per lo meno contraddittori.

Le attuali cause del fenomeno inflattivo sono controverse, ma due fatti possono essere affermati con certezza. La prima è che d’ora in poi se ne debba tener conto, al contrario che nel ventennio passato. Bisogna considerare, quindi, che spendendo si rischia di innescare un aumento dell’inflazione. Il secondo fatto è che l’unico rimedio rapido del flagello è il rialzo del costo del denaro, cioè il “raffreddamento” dell’economia. La rapidità è richiesta proprio a causa dei pesanti costi sociali citati (può non esserci consenso solo sulla durata dell’intervento di raffreddamento).

Per definire il quadro in cui si muove il Pnrr, bisogna infine osservare che veniamo da un ventennio di bassissima crescita del Pil, nonostante l’aumento del debito pubblico in termini reali. Cioè la relazione tra spesa pubblica e crescita sembra per lo meno problematica. Da sinistra si dice che se avessimo speso ancora di più la situazione sarebbe migliorata. Questo rientra nel mondo del possibile, ma sembra una scommessa azzardata, se si tiene presente anche il “terzo incomodo” che abbiamo citato, l’inflazione.

La presidente Meloni poi afferma che la ricchezza la creano solo i produttori privati, cosa che è certamente falsa se il settore pubblico funziona bene, e certamente il Pnrr mira ad aumentare l’efficienza della spesa. Ma questo effetto, se pur si realizza, si vedrà solo nei tempi medio-lunghi, che vanno oltre l’arco temporale in cui si spendono i soldi del Pnrr stesso. È quindi necessario che gli investimenti siano al riparo da rischi di insufficiente produttività per la crescita.

In tale ottica appaiono in tutta la loro gravità le debolezze del Piano evidenziate nella recente analisi di Tito Boeri e Roberto Perotti, che ne mette in luce la scarsa focalizzazione e la dispersione degli strumenti.

Si può solo aggiungere che sembrano davvero poco comprensibili le prese di posizione di chi ritiene che tutti gli investimenti del Pnrr vadano fatti “in quanto investimenti” (forse anche il ponte di Messina), a prescindere da analisi che li giustifichino in modo adeguato e convincente, e non “chiedendo all’oste se il vino è buono”.

Paradossalmente questa assunzione super ottimistica (si potrebbe dire “agiografica”) è in qualche modo giustificata dallo stesso debole impianto analitico a supporto del Piano, basato principalmente sugli effetti di moltiplicatore della spesa. Qualsiasi progetto, con quell’approccio, darebbe risultati meravigliosi.

Anche cattedrali nel deserto, sempre politicamente molto gradite.

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