Il professor Felice ha dedicato una densa recensione al mio Capitalismo (Il Mulino, 2023). Si tratta di una serie di postille che, conoscendo il recensore, mi immagino annotate febbrilmente ai margini, con tratti di penna decisi, a testimoniare un dissenso appassionato. Felice e i lettori del Domani mi perdoneranno solo un paio di precisazioni. Felice sostiene che io presenterei una sorta di capitalismo ideale, eretto attorno a qualche reliquia intellettuale ottocentesca, inevitabilmente più attraente del capitalismo reale, la cui storia è intrisa di crimini e soprusi. A essere una trama di abusi è, temo, la storia umana in generale. È difficile sostenere che, con queste o quelle istituzioni, il legno storto di cui siamo fatti sia mai stato raddrizzato. Sappiamo però che quando ci si è provato con maggior vigore, in alcuni anni e in alcuni paesi, nel novecento, più che raddrizzare il legno è andata a fuoco la foresta.

Gli incentivi su cui si regge un’economia di mercato non migliorano la foggia morale delle persone. L’appello al reciproco interesse anziché alla benevolenza, il ricorso allo scambio anziché al dono, è l’unico sistema che abbiamo per cooperare tra estranei, fra persone che non si conoscono. Quanto più questa cooperazione si estende tanto maggiore è la nostra capacità di produrre beni e servizi sempre nuovi, andando a soddisfare i bisogni gli uni degli altri.

Felice mi rimprovera di considerare il capitalismo un sottoprodotto del liberalismo, un processo nel quale le decisioni di produzione sono decentrate: che vuol dire che le scelte che riguardano, appunto, i beni e servizi che debbono essere prodotti vengono prese da imprese e imprenditori, ognuno attento al proprio tornaconto. L’esplosione di ricchezza sperimentata prima dalla nostra parte di mondo e poi altrove negli ultimi duecentocinquant’anni è avvenuta in un contesto nel quale le persone si sono sentite libere, per carità mai del tutto, ma di più che in passato, di sviluppare le proprie attività senza chiedere permesso. Al ministro, al signorotto locale, alla corporazione.

La storia non è un romanzo di cappa e spada. Nel mio libretto, ripeto credo fino allo sfinimento che il capitalismo non è un “ismo” col suo manifesto e le sue soluzioni chiavi in mano. Esso è semplicemente qualcosa che “capita” quando agli individui viene lasciata un po’ di libertà economica. Ne basta relativamente poca perché, in spazi interstiziali, le persone si diano da fare al punto da creare una tale ricchezza che gli osservatori ne restano confusi. Non è mai esistito un “capitalismo statale con caratteristiche cinesi”, nel senso di un modello con capo e coda. Più semplicemente, in un paese di un miliardo e duecento milioni di abitanti basta non mettere più in galera coloro che hanno in sé la voglia di intraprenderne, per averne tre decenni di crescita economica sostenuta.

Imperfezione strutturale

Il capitalismo è imperfetto come qualsiasi storia i cui i protagonisti sono gli esseri umani in carne ed ossa. Ma se alle regole che governano l’economia non può essere chiesta la perfezione, andrebbe almeno chiesto di non ostacolare la soluzione dei problemi. E la nostra esperienza è che non tutti i problemi sono risolvibili, ma quelli che possono essere risolti si fronteggiano meglio quante più teste vi si applicano e quanti più tentativi diversi di venirci alle prese possono essere sviluppati. A innovare sono le persone, non i “sistemi”. È inevitabile che dal calderone di una spesa pubblica che sfiora la metà del Pil venga, di tanto in tanto, il finanziamento di iniziative che si rivelano innovative. Ma è ragionevole mettere tutte le nostre uova in un solo paniere, scommettendo sulla superiore abilità di pochi di scegliere per tutti? Questo vale anche per questioni come la cosiddetta transizione ambientale. Per cui la teoria economica suggerisce, per difficile che sia, di provare a internalizzare le esternalità. E la prudenza rammenta che non c’è “transizione” che sia mai avvenuta per legge, e non invece per iniziativa di ricercatori, inventori, imprenditori.

Questo è uno dei due sensi in cui capitalismo è libertà. L’altro riguarda il motivo del profitto. Non c’è dubbio che si possa uccidere trascinati dall’ossessione del guadagno, ma lo si fa anche per amore. È una buona ragione per regolamentare il flusso dei nostri affetti, per lasciare a una burocrazia di determinare chi può mettersi con chi?

Il motivo del profitto è una garanzia non per il produttore ma per il consumatore. È perché sperano di guadagnarci che i nostri editori, che poi in questo caso è lo stesso, il Mulino, pubblicano i libri di Emanuele Felice come questo mio.

Il mio libretto non è molto ottimista sul futuro del capitalismo. Gli eventi di questi ultimi anni dimostrano la facilità con la quale le società ricche dimenticano il valore di quella libertà economica che ha consentito loro di diventare tali. Noi abbiamo bisogno di tanta più libertà economica quanto più complesse sono le società in cui viviamo e le sfide che vogliamo fronteggiare: cioè quanto più vari e complicati sono i modi della nostra cooperazione.

Interessi e intenzioni

Produzioni rudimentali possono essere il frutto del lavoro di poche mani, dirette da un unico capo. Ma solo sulla libertà economica si possono fondare strutture estese, “catene del lavoro” che attraversano i paesi, forme di collaborazione diverse, plurali e nuove. Del genere che ci hanno garantito la prosperità di cui oggi godiamo. Beninteso, in questa cornice le comuni anarchiche si accomodano senza problemi. In un mondo capitalista, si possono sperimentare alternative all’economia basata sul profitto. In un mondo non-capitalista, no. Il che qualcosa dovrebbe suggerirci.

Mi rendo conto che – a trecento anni dalla nascita di Adam Smith – fra le persone che scrivono sono ancora rari coloro che riconoscono come la collaborazione fra tanti possa basarsi solo sulle convenienze reciproche e non sulle buone intenzioni. Però credo sia un problema, ed è la ragione per cui ho scritto il mio libriccino.

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