Maurizio Leo si era preparato una via di fuga già a marzo, quando presentò la legge delega appena approvata in Consiglio dei ministri. È solo il primo passo di un lungo percorso che porterà il Paese verso un Fisco nuovo e più efficiente, disse prudentemente all’epoca Leo, già dirigente del ministero delle Finanze e poi tributarista in proprio, arruolato da Giorgia Meloni come esperto di tasse. L’aspirazione del viceministro dell’Economia, senza falsa modestia, era quella, nientemeno, di diventare un nuovo Bruno Visentini, l’architetto della riforma che quasi mezzo secolo fa (correva l’anno 1974) rivoluzionò il sistema tributario nostrano.

Il passo indietro

A quasi cinque mesi di distanza dalla dichiarazione d’intenti di marzo, mentre il disegno di legge delega si prepara ad affrontare l’esame del Senato in vista del via libera definitivo alla Camera, forse già prima della pausa agostana, si può dire che Leo ha ancora molta strada da fare per realizzare le sue mai nascoste ambizioni. Già, perché sfrondato dalle numerose enunciazioni di principio sul contrasto all’evasione, dai venti articoli della delega, più volte coretti con emendamenti vari, emerge con chiarezza un approccio minimalista nella sostanza.

Ridotta all’osso, la grande riforma annunciata dal governo ruota per ora attorno a un solo concetto chiave. Questo: ovunque possibile l’amministrazione fiscale fa un passo indietro. I controllori dell’Agenzia delle entrate mettono da parte (semmai l’hanno indossata) la maschera dell’esattore per indossare quella della guida esperta, del funzionario pronto a dare una mano per orientarsi nella selva oscura dei tributi e pagare quanto dovuto. Passa da qui, per Leo, la strada maestra per ridurre la mostruosa evasione fiscale nostrana, quei 100 miliardi l’anno di tasse non pagate che affossano la capacità di spesa dello Stato, dal welfare agli investimenti.

All’atto pratico, la riforma dovrebbe tradursi in un ampliamento senza precedenti della collaborazione tra cittadini (e imprese) e il fisco. Nel testo della delega, la novità viene tecnicamente declinata con il cosiddetto adempimento collaborativo e il concordato preventivo biennale. Il primo, noto anche come cooperative compliance, esiste già dal 2015 per le imprese con oltre un miliardo di ricavi, un pugno di grandi gruppi che di fatto possono concordare passo dopo passo la loro strategia fiscale con l’amministrazione, mettendosi al riparo da accertamenti. Adesso però il governo Meloni, con un emendamento di marca leghista, vuole estenderlo anche alle persone fisiche con reddito pari o superiore al milione di euro che trasferiscono la residenza in Italia. Inoltre, con un prossimo decreto attuativo, è probabile che l’adempimento collaborativo venga esteso a una platea di aziende molto più ampia rispetto al pugno di grandi gruppi da almeno un miliardo di ricavi a cui è attualmente riservato. Probabile che si arrivi a 100 milioni.

Per l’esercito delle piccole imprese con più di cinque milioni di fatturato la riforma Leo ha invece apparecchiato un’altra novità, sempre nel nome del fisco dal volto amico.

All’articolo 15 la legge delega introduce il meccanismo del concordato preventivo biennale attraverso il quale, recita testualmente il testo di legge, «i contribuenti avranno la possibilità di aderire alla proposta sviluppata, in base all’incrocio delle banche dati, dall’Agenzia delle entrate ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, pagando quanto pattuito in due anni». In pratica, una volta trovato un accordo con il fisco sull’entità delle imposte da pagare, i piccoli imprenditori saranno al riparo da ulteriori controlli.

Senza tecnologia

In un’intervista di qualche mese fa, l’ex ministro Rino Formica liquidò il concordato preventivo biennale come una forma di «primitivismo fiscale». Nel senso che il governo rinuncia a sfruttare fino in fondo le nuove tecnologie digitali che, grazie all’incrocio di un’enorme mole di dati, oggi consentono di determinare la posizione fiscale di ogni cittadino con una precisione senza precedenti. La strada illustrata dalla legge delega è invece quella della contrattazione, in una forma che ricorda quella utilizzata prima della riforma Visentini, quando l’imposta da pagare veniva fissata per mezzo di un negoziato tra l’erario e il contribuente.

Quindi mentre da una parte il governo spiana la strada agli evasori abituali, allargando le maglie della rottamazione delle cartelle, dall’altra rinuncia a stringere le maglie dei controlli per allestire, tra concordati e collaborazioni, una comoda passerella per le imprese anche di piccolissime dimensioni. I risultati di questo nuovo approccio potranno essere valutati solo nel corso dei prossimi anni. Intanto però il governo ha già inviato un segnale chiaro all’Europa chiedendo la modifica degli impegni di riduzione dell’evasione, impegni presi solo due anni fa con il Pnrr. Un fisco più equo resta una mission impossibile, questo il messaggio destinato a Bruxelles. Con buona pace della riforma.

© Riproduzione riservata