Le leggi hanno un difetto: valgono per come sono scritte e non per come sono raccontate. Per settimane il governo ha spiegato che il taglio all’assegno del reddito di cittadinanza contenuto nella legge di bilancio sarebbe stato destinato agli occupabili, cioè quei lavoratori che sono nelle condizioni di lavorare ma che non hanno un impiego e quindi – è il sottotesto nemmeno tanto implicito – che quell’assegno non se lo meritano. La legge che hanno scritto, però, è molto diversa e smonta questa narrazione.

Occupabili e occupati

I beneficiari del reddito di cittadinanza non sono tutti uguali. I percettori del reddito possono essere indirizzati ai servizi sociali perché si trovano in condizioni di disagio tale da non essere occupabili. Oppure sono occupati poveri, cioè persone con un lavoro ma di bassa qualità, orario ridotto, e mal retribuito, al punto da non permettere alla loro famiglia di avere un reddito al di sopra della soglia di povertà. Infine, ci sono i beneficiari che vengono chiamati a sottoscrivere un “Patto per il lavoro”, pena la decadenza dell’assegno, per essere indirizzati verso tirocini o offerte di impiego: questa terza categoria racchiude la maggioranza dei beneficiari che per settimane sono stati definiti “occupabili”.

Le modifiche

Ora le modifiche al reddito inserite tra gli emendamenti approvati in commissione Bilancio sono tre. 

La prima, presentata da Ylenja Lucaselli – ex candidata con il Pd nella Puglia di Vendola e Emliano poi entrata in parlamento con Fratelli d’Italia nel 2018 – prevede di pagare il contributo per l’affitto – il limite è 280 euro al mese massimo – direttamente al proprietario della casa che affitta ai beneficiari dell’assegno, con l’idea implicita che sia meglio non affidare i soldi ai poveri che non c’è da fidarsi.

La seconda, presentata da Maurizio Lupi, elimina il criterio dell’offerta congrua, che include un livello adeguato di retribuzione, un limite di distanza dell’offerta di lavoro dal luogo di residenza e la coerenza con le competenze del beneficiario.

Nella realtà non ci sono obblighi di verifica sull’offerta congrua, e in ogni caso la norma è scritta male e si annulla da sola: rinvia a un articolo di legge che a sua volta rinvia a un decreto che include nuovamente la definizione di offerta congrua. A prescindere dagli errori surreali, resta il tentativo grave di picconare il principio dell’adeguata retribuzione.

La terza modifica è stata presentata dal governo: riduce il periodo in cui si può percepire l’assegno da otto a sette mesi per tutte le famiglie che non hanno al loro interno un minore, un ultrasessantenne o un disabile.

Questi paletti, già previsti dalla prima versione della manovra, traducono il concetto di occupabilità di fatto in limiti di età: non sei occupabile se hai meno di 18 anni o più di 60 anni, ma siccome il Reddito di cittadinanza è concepito come sostegno alla famiglia e non al singolo individuo, il criterio si applica a tutti i componenti della famiglia.

L’effetto finale è un pasticcio le cui distorsioni sono evidenti e che toglie l’assegno anche ai working poors, i lavoratori poveri che con il reddito integravano il salario per non annaspare sotto la soglia di povertà.

Le distorsioni

«Scritta così», spiega la deputata di Articolo 1, Maria Cecilia Guerra, «ci può essere una famiglia con un ultra60enne e un figlio 24 enne in cui il primo ottiene l’assegno e può mantenere il secondo anche se magari il secondo potrebbe lavorare e non lo fa e un’altra famiglia con un 54enne che perde l’assegno e magari non può più mantenere il figlio che sta facendo un tirocinio. Non c’è nessuna logica».

Inoltre, aggiunge Guerra, tra le 440 mila famiglie che si vedranno ridurre l’assegno a sette mesi «rientreranno anche i beneficiari che hanno un impiego, mentre coloro che mantengono l’assegno sono obbligati a seguire un corso di formazione di sei mesi, a prescindere dal fatto che poi trovino un lavoro o meno».

I percettori di reddito di cittadinanza con un impiego non sono pochi, in un paese con interi settori produttivi con retribuzioni basse e intere regioni che scontano una carenza drammatica di lavoro.

A giugno di quest’anno, secondo l’Anpal erano più di uno su cinque, circa 173mila persone. Quasi il 40 per cento ha un contratto a tempo determinato. Tra questi il 33 per cento ha un contratto che va dai tre ai sei mesi e il 19 per cento inferiore ai tre mesi. Anche i dati Inps sull’anno 2021 confermano la stessa tendenza: il 20 per cento aveva percepito una retribuzione, con alta incidenza di contratti part time in settori a basso valore aggiunto, come la ristorazione o le costruzioni.

Considerando solo le persone che hanno iniziato a prendere l’assegno tra la fine del 2021 e la prima metà di quest’anno (dati Anpal) la quota è di nuovo sugli stessi livelli: il 22,8 per cento risulta avere un impiego.

Un lavoro degno

Ieri per giustificare la sua proposta di cancellazione dell’offerta congrua, Maurizio Lupi ha dichiarato: «La dignità è il lavoro e non l'assistenza dello Stato». Ma le modifiche volute dal governo al reddito di cittadinanza e una rapida lettura dei dati smontano questa narrazione. Mostrano che stiamo andando nella direzione opposta a quella raccomandata anche da uno degli ultimi Consigli Ue sulla necessità di garantire un livello di reddito minimo.

La dignità non è il lavoro in sé, ma un lavoro degno per una vita degna.

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