Tra una trattativa con i Mittal sempre più in salita e l’amministrazione straordinaria annunciata ma solo a parole, l’ex Ilva di Taranto rischia di chiudere definitivamente. Ieri lavoratori e sindacati, insieme alle associazioni dell’indotto, si sono radunati a migliaia ai cancelli dello stabilimento pugliese, chiedendo al governo di fare in fretta per salvare l’impianto e a Mittal - che nonostante l’avviso di sfratto del ministro Urso detiene ancora la maggioranza di Acciaierie d’Italia - di farsi da parte. «Morselli e Mittal via da Taranto», è stato il grido che ha unito i manifestanti in corteo nella protesta contro la fallimentare gestione di Lucia Morselli, la manager a capo del gruppo.

La multinazionale indiana, forte dei patti parasociali firmati con i governi precedenti e nonostante le dichiarazioni di circostanza, per il momento non sembra avere nessuna intenzione di mollare la presa, anche a costo di arrivare a spegnere per sempre la più grande acciaieria d’Europa.

La protesta

A partire dalle 7 della mattina di ieri Taranto è stata protagonista di un altro giorno di protesta, la più grande delle ultime settimane. Una manifestazione che ha visto la partecipazione comune di lavoratori dell’indotto di Acciaierie d’Italia, dei sindacalisti, dei trasportatori, dei titolari delle imprese appaltatrici e dei rappresentanti di alcune associazioni di categoria che rappresentano le aziende dell’indotto, come Aigi, Confapi e Casartigiani.

Le associazioni rappresentative dell’indotto hanno parlato di «data storica per la città», vista che si tratta della prima volta in cui imprenditori e organizzazioni sindacali che scendono per strada a manifestare con le stesse rivendicazioni, in difesa del futuro dell’acciaieria. Le aziende sono spaventate dall’ipotesi dell’amministrazione straordinaria, che senza un accordo tra Invitalia e Mittal scatterebbe alla fine di questa settimana. Temono di perdere i propri crediti, che secondo Aigi ammonterebbero ad almeno 180 milioni di euro, come già accaduto nel 2015 con l’uscita del gruppo Riva che portò al commissariamento dell’acciaieria.

Le imprese da diversi giorni hanno fermato ogni attività all’interno dell’acciaieria, garantendo solo il pronto intervento per le emergenze e la messa in sicurezza, e hanno già chiesto la cassa integrazione per oltre 2.600 lavoratori.

La fabbrica si sta così progressivamente fermando: è in atto la fase di spegnimento di diversi impianti, che ha già portato allo stop di un altoforno e alla preparazione della fermata delle batterie coke, mentre un primo altoforno è già inattivo dallo scorso agosto. Tutti, lavoratori, sindacati e imprenditori, concordano che questa situazione sia la conseguenza della gestione dei Mittal, per questo chiedono che la multinazionale franco-indiana, lasci per sempre Acciaierie d’Italia.

Proprio nel mezzo del corteo, che si è snodato attorno alla fabbrica con in testa operai e sindacati, è la notizia che una piccola azienda subappaltatrice dell'indotto ha comunicato di aver “interrotto tutti i lavori di manutenzione al proprio interno" con il licenziamento di una decina di dipendenti.

Dramma che si aggiunge al dramma, e potrebbe abbattersi a cascata su tutte le piccole aziende che ruotano attorno alla grande fabbrica: «Sono realtà per le quali abbiamo già usato tutto il plafond della cassa integrazione ordinaria pari a 52 settimane», spiega il sindacalistica della Uilm di Taranto, Mimmo Amatomaggi.

«Abbiamo chiesto ai parlamentari di prevedere attraverso un emendamento alle misure legislative in discussione, un intervento per salvare anche la manodopera di queste piccole imprese». Provvedimenti difficili da attuare senza prima definire l’assetto di Acciaierie d’Italia. Per questo la richiesta unanime è di fare in fretta.

Trattativa agli sgoccioli

Restano infatti pochissimi giorni per evitare l’amministrazione straordinaria, che da una parte libererebbe Ilva dal giogo dei Mittal, consentendo al socio pubblico di avviare il risanamento, mentre dall’altra finirebbe per affossare le imprese dell’indotto, che non vedrebbero più garantiti i loro crediti.

Nei giorni scorsi Mittal ha provato a riaprire il dialogo con il governo, dicendosi disposta a cedere le proprie quote o a scendere in minoranza, ma da Palazzo Chigi ricordano che è stato proprio il socio privato a determinare la situazione attuale, rifiutando a fine dicembre di sottoscrivere l’aumento di capitale di 320 milioni di euro.

I 14 giorni di tempo decorsi i quali scatterebbe l’amministrazione straordinaria stanno per scadere, e le due parti dovrebbero incontrarsi l’ultimo giorno utile, giovedì 1 febbraio, per trovare una soluzione in extremis.

Per i sindacati, però, non dev’esserci più spazio per Mittal, e spingono per la nazionalizzazione. «È necessario archiviare immediatamente la stagione di Mittal e affrontare il futuro, che non può passare per il fermo degli impianti e la collocazione in cassa integrazione dei lavoratori. L’acciaio e la decarbonizzazione si fanno con le persone che lavorano, tutelando la salute e l’ambiente», ha dichiarato in una nota Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia della Fiom-Cgil. A questo punto, però, il rischio che di Acciaierie d’Italia resti solo il passato aumenta sempre di più.

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