Le imprese pubbliche nell’attuale situazione italiana sembrano soffrire della contraddizione che sono contemporaneamente chiamate a fare profitti, ed a ubbidire a un padrone politico che spesso ha obiettivi molto diversi. 

In particolare, se la “mission” pubblica dell’impresa non è ben definita, queste imprese tendono a realizzare obiettivi propri, massimizzando i trasferimenti dallo stato o la protezione dalla concorrenza.

Questi problemi sono particolarmente vistosi nel settore dei trasporti, dove si presentano situazioni nelle quali l’interesse pubblico sembra avere davvero poco spazio.

Le contraddizioni

Il dibattito sullo spoils system forse non presta sufficiente attenzione ad alcuni problemi specifici e alle contraddizioni implicite del ruolo e degli obiettivi delle imprese pubbliche, in particolare di alcune.

Queste contraddizioni sono riconducibili largamente al concetto di “cattura del regolatore” da parte dell’impresa regolata (ma spesso vale anche per contraddizioni in cui il regolatore induce il regolato a comportamenti impropri).

Salvatore Bragantini scrive a proposito dei dirigenti nominati per via politica che «quelle persone devono però perseguire l’interesse dell’impresa». Ma quell’obiettivo, previsto dalla normativa per ogni spa, pubblica o privata che sia, è sempre implicitamente in contraddizione con l’interesse pubblico: si pensi ai trasferimenti da parte delle casse pubbliche. La dirigenza, nell’interesse dell’azienda, tenderà a massimizzarli comunque, adducendo ovviamente obiettivi sociali, sui quali sarà in grado di fornire ampia documentazione, perché godrà nei confronti dei decisori politici, di molto migliori osservazioni (tecnicamente si chiama rendita informativa). E spesso per ragioni di consenso elettorale a breve il decisore politico sarà ben felice di credergli.

La riprova sta ancora nell’articolo di Bragantini (ma anche di Penati alcuni mesi fa) in cui si evidenziava come spesso il decisore politico “si dimentichi” di specificare la “mission” dell’impresa, che ne giustifichi la natura pubblica. Dimenticanza cui ovviamente l’impresa si adatta subito, massimizzando solo gli obiettivi propri.

Un’altra distorsione riguarda la concorrenza: è indubbio che sia nell’interesse dell’impresa ricercare il massimo della protezione pubblica da questa fastidiosa caratteristica dei mercati,

E anche qui, il decisore pubblico ha interesse che la propria impresa (specie se è un ministro del settore) non soffra, o peggio non rischi in alcun modo il fallimento. Anzi se farà profitti monopolistici in realtà il ministro competente farà una gran bella figura, anche se l’interesse pubblico ne soffrirà. Spesso poi il regolatore “indipendente” tiene un occhio assai benevolo sulle imprese i cui vertici sono di nomina politica, in quanto il suo stesso potere ha comunque quell’origine. Ancora maggiore è il rischio se l’impresa si connota come “campione nazionale” o aspirante tale.

Il settore dei trasporti si presta bene ad esemplificare la debolezza del regolatore del mercato nei confronti di imprese pubbliche o anche di imprese in concessione, che soffrono di contraddizioni in fondo simili.

Massimizzare gli obiettivi

Vediamo ora più praticamente come imprese pubbliche o in concessione, siano riuscite a massimizzare obiettivi propri a causa della debolezza del regolatore o dell’assenza di una chiara missione aziendale pubblica.

Il sistema delle concessioni autostradali ha visto l’assenza di una vera competizione negli affidamenti, con saggi di interesse garantiti altissimi, e profitti conseguenti a scapito degli utenti. La cattiva manutenzione è diventata poi fenomeno palese con il crollo del ponte Morandi a Genova ed altri episodi simili. La motivazione di questa inadeguata presenza pubblica è probabilmente che lo stato ha goduto degli introiti fiscali sui profitti dei concessionari, in una spartizione assai poco virtuosa, a danno dell’interesse pubblico. Un caso di “cattura spartitoria” del regolatore da parte del regolato, il principale dei quali, Autostrade per l’Italia, ha goduto anche di una generosissima liquidazione finale quando lo stato ha revocato a se la concessione.

I servizi di trasporto locale, quasi tutti pubblici e affidati in concessione, a vent’anni dai primi timidi interventi normativi per avere delle gare di affidamento credibili, nelle maggiori città non hanno mai visto una pressione concorrenziale degna di questo nome, a causa delle fortissime resistenze politiche locali e centrali. Il caso ha molte analogie con quello degli stabilimenti balneari. E qui non si tratta affatto di liberalizzare il settore, ma solo di diminuirne i costi ed aumentare la qualità, mantenendo un assetto monopolistico dei servizi, anche se temporaneo (le concessioni sono periodicamente rimesse in gara).

La maggiore impresa pubblica non quotata italiana, Fsi, vede una situazione analoga: trasformata in spa all’inizio del secolo nella speranza di ridurne gli elevatissimi costi per le casse pubbliche, rimane in vita ancora solo grazie ai trasferimenti pubblici, che a vario titolo superano i dieci miliardi annui. Non si tratta di trasferimenti immotivati in sé, ma certo per i quali non è chiesta alcuna rendicontazione quantificata, nemmeno dei risultati degli investimenti. Si potrebbe vedere anche qui uno scambio politico poco virtuoso: lo stato non chiede conto dei risultati, neanche sociali, dei trasferimenti all’impresa, e questa si adegua ad obiettivi di consenso politico che con la ricerca del profitto o anche solo dell’efficienza non hanno nulla a che spartire.

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