Solo qualche mese fa, prevalevano due scenari nella lotta all’inflazione: chi prevedeva il rischio di una recessione e chi il soft landing, ovvero un rallentamento dell’attività economica, ma senza una riduzione nel Pil. Sono passati pochi mesi ma lo scenario economico è cambiato radicalmente, sia negli Usa che nell’Eurozona.

Le previsioni ufficiali vengono regolarmente riviste al rialzo, e quelle di mercato stimano in 2,1 per cento la crescita del Pil negli Stati Uniti nel 2024, e dello 0,5 nella Area Euro, ma per poi accelerare all’1,4 nel 2025. Le indagini sulla situazione economica indicano che il settore dei servizi è in espansione su entrambe le sponde dell’Atlantico: 51,7 e 51,5 rispettivamente negli Usa ed Eurozona, dove un valore superiore a 50 indica espansione.

Nel settore manifatturiero l’indice ha superato per la prima volta il livello di 50 negli Usa, mentre indica ancora contrazione (46) nell’Eurozona, anche se il dato è in continuo miglioramento e pesa la contrazione dell’industria tedesca.

La ripresa

Lo scenario di crescita è confermato dalle stime degli utili delle società quotate: +11 e +13,5 per cento, rispettivamente nel 2024 e 2025, per l’indice della Borsa americana; +4,2 e +10,5 per cento, per quelle dell’Eurozona.

Una situazione di forte ripresa quindi, anche se quella dell’Europa è più contenuta e spostata avanti nel 2025 rispetto agli Usa. In poco tempo si è dunque passati dalla discussione se sarà soft landing o recessione, a quanto la crescita economica e degli utili societari siano sostenibili. C’è un divario tra Stati Uniti e Europa, ma lo scenario è simile.

L’inflazione è scesa più rapidamente di quanto previsto e oggi non molto distante dal comune obiettivo del 2 per cento di Fed e Bce: 3,2 per cento il dato di marzo negli Usa, in calo dal 4,9 di un anno fa; e 2,4 nell’Eurozona, contro il 6,9 dell’anno scorso (in Italia è all’1,3).

Una discesa dell’inflazione che non ha distrutto posti di lavoro, come temuto; anzi è vero il contrario visto che il tasso di disoccupazione è al minimo storico negli Usa (3,8 per cento), e al 6,5 nell’Eurozona in calo rispetto al 7,6 in media nell’anno prima del Covid. Una bassa disoccupazione, nonostante una crescita salariale superiore a quella dei prezzi al consumo: 4,1 e 4,2 per cento rispettivamente negli Usa e nell’Eurozona.

L’inflazione, dunque, dopo aver colto di sorpresa le banche centrali, è anche scesa più rapidamente di quanto Fed e Bce prevedessero; senza creare disoccupazione, e con una dinamica dei salari che eccede l’inflazione.

La Curva di Phillips

Questi dati permettono alcune conclusioni e pongono degli interrogativi. È legittimo chiedersi quanto la discesa dell’inflazione sia dovuta alla politica dei tassi elevati. Difficile quantificarlo, ma certamente non è stato l’elemento determinante, perché l’inflazione appare legata alla concomitanza di fattori legati all’offerta (disfunzioni nelle filiere di produzione, impatto del Covid sulla struttura del mercato del lavoro, costo delle materie prime e contrazione del commercio internazionale dovuto ai rischi geopolitici, crisi energetica, transizione ambientale e rallentamento cinese), contro i quali la politica monetaria è impotente.

Inoltre, gli alti tassi frenano l’inflazione agendo in prima battuta sul settore immobiliare e sul credito alle imprese, mentre, fatta eccezione per gli immobili commerciali, non c’è alcun segno di tensioni e difficoltà nel mercato dei mutui e in quello dei prestiti alle imprese.

Nella lotta all’inflazione, le banche centrali hanno posto una grande enfasi sulla dinamica salariale, facendo affidamento sulla correlazione positiva tra crescita dei prezzi e salari che ha prevalso storicamente, nota come Curva di Phillips.

La Curva ipotizza una relazione stabile tra l’inflazione, che induce i lavoratori a richiedere aumenti salariali, e che le imprese a loro volta trasferiscono a valle innescando una spirale inflazionistica; per romperla è dunque necessaria una politica monetaria che comprima i margini delle imprese, inducendole così a tagliare il costo del lavoro, negando aumenti salariali e tagliando l’occupazione. I dati recenti mostrano però come la Curva non sia più un valido riferimento per la politica economica.

Cos’è successo

Se abbiamo evitato il rischio recessione nonostante i tassi elevati, questo non vuol dire che questa politica monetaria sia esente da rischi: se infatti i tassi non scenderanno rapidamente il rischio alla lunga è quello di mettere in crisi segmenti del settore immobiliare e le imprese con un elevato livello di indebitamento, in quanto il debitore non riesce più a sostenere l’onere degli interessi, e neppure a rifinanziare il debito.

Sarà pure una crisi limitata ad alcuni settori e di natura finanziaria, ma pur sempre inutilmente costosa, oltre che rischiosa. Bene, dunque, ha fatto la Banca centrale Svizzera che ha tagliato i tassi a sorpresa senza aspettare ulteriori “conferme” che l’inflazione sia chiaramente in discesa, come invece fanno Bce e Fed, senza peraltro specificare quali siano queste “conferme”.

Come è stato possibile ridurre un’inflazione così elevata, così rapidamente, pur in presenza di salari in crescita e occupazione in aumento? E quali le ragioni del divario tra l’andamento dell’economia americana e dell’Eurozona?

Una possibile spiegazione è la forte espansione fiscale che Europa e Stati Uniti hanno adottato per sostenere i redditi a fronte di una serie di shocks reali: Covid, crisi energetica, deglobalizzazione e contrazione del commercio internazionale, disfunzioni nelle filiere di produzione, aumento della spesa per la difesa, costo della transizione energetica, crescente impatto dell’inverno demografico sul welfare.

Trattandosi di shock reali è stata la politica corretta. Non esistono però pasti gratis: la necessità di collocare sul mercato una grande quantità di debito pubblico causerà un aumento duraturo dei tassi reali a lungo termine, gravando sulle imprese molto indebitate, poco redditizie e sui settori in declino.

Gli errori europei

L’espansione fiscale, per quantità e qualità, può anche contribuire a spiegare il divario tra l’andamento economico di Stati Uniti ed Eurozona. Mentre il disavanzo di bilancio americano era al 6,3 per cento del Pil nel terzo trimestre del 2023 (ultimo dato disponibile), nell’Eurozona era meno della metà (2,8): dopo la forte espansione dei bilanci pubblici a causa del Covid, l’Europa sta dunque riducendo il sostegno pubblico all’economia molto più rapidamente rispetto agli Usa, un errore di fronte a una crisi prevalentemente dovuta a shock reali. Lo stesso errore che ha pregiudicato la capacità di crescita dell’Europa rispetto agli Usa dopo la grande crisi del 2008 - 2011.

Quantità ma anche qualità della spesa pubblica. Mentre negli Usa il governo ha privilegiato il sostegno dei consumi privati con trasferimenti diretti agli individui, in Europa il sostegno è andato alle imprese, con risultati discutibili: basti pensare al bonus casa da noi, che oltre agli illeciti, ha solo creato un boom temporaneo per il settore delle costruzioni, con scarse ricadute sulla produttività; o agli incentivi a favore del settore automobilistico in Germania, quando invece la crisi è strutturale.

Così mentre negli Usa possono contare sulla domanda di consumi per trainare la crescita, l’Europa continua a puntare sull’export dell’industria anche se sempre più in concorrenza con le imprese cinesi. E mentre gli Usa hanno varato un piano di 1.200 miliardi di incentivi per gli investimenti privati, capaci di attirare anche quelli europei, l’Europa ha rinunciato a progetti analoghi a livello Comunitario; e il Next Generation Eu è rimasto un caso isolato.

In questo, pur essendone di gran lunga il principale beneficiario, un contributo in negativo l’ha fornito l’Italia, con le sue inefficienze, ritardi, e abusi nell’uso dei fondi del Pnrr.

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