Che sia stato un anno particolare per il mercato del lavoro è sotto gli occhi di tutti, basta osservare i dati che abbiamo a disposizione. Se consideriamo infatti i numeri nell’arco temporale che va dal secondo trimestre 2022 al secondo trimestre 2023, quelli più certi e già rivisti da Istat, il numero di occupati è cresciuto di 350mila unità, il numero di inattivi è diminuito di 377mila unità e quello dei disoccupati aumentato di 102mila.

Performance indubbiamente positiva e che subito fa saltare all’occhio gli effetti del cambiamento demografico in corso, infatti sono ben 129 mila le persone che sono uscite dalla popolazione 15-64 anni calcolata dall’Istat, composti largamente da chi ha superato questa soglia d’età e insieme da chi è emigrato, senza che immigrazione e soprattutto le generazioni più giovani potessero compensare questo calo.

La dinamica è comunque quella di una attivazione di persone che passano dallo status di inattivi (che non cercano quindi lavoro) a quello di occupati, magari transitando dalla disoccupazione (la ricerca attiva di lavoro) che però complessivamente diminuisce, risultando quindi un momento di passaggio verso un lavoro che pare esserci.
Al contrario quindi di una narrazione che vede quello italiano come un mercato del lavoro fermo, caratterizzato da una tendenza al non voler lavorare, i dati mostrano altro. E per questo occorre provare a capire cosa sta accadendo, senza dimenticarci come oggi i numeri ci collochino ancora, pur a fronte di numerosi record toccati, agli ultimi posti in Europa.

Donne e giovani

Il primo elemento che bisogna prendere in considerazione è che questo trend positivo dell’occupazione è in corso almeno da un decennio, con il numero di occupati che si è pian piano (con l’interruzione del periodo pandemico) innalzato arrivando al record storico e il numero di inattivi che è anch’esso arrivato al picco più basso.

Per questo motivo occorre sgombrare il campo da una comunicazione politica che cerca di ricondurre trasformazioni strutturali a risultati di provvedimenti economici o giuslavoristici contingenti, essendosi susseguiti in questo arco temporale almeno 7 governi.

Ulteriore fattore significativo è legato all’aumento dell’occupazione femminile che è in continua crescita ed ha toccato nell’ultimo anno un nuovo record e che ha ragioni sia di natura culturale, con una popolazione più interessata al lavoro, la diminuzione dei carichi di cura derivanti dalla crisi delle strutture familiari e dal ritardo della genitorialità (quando avviene), sia di natura economica legate alla diminuzione della ricchezza disponibile nel modello del male breadwinner che quindi necessita un supporto ulteriore all’interno, in questo caso, dei nuclei familiari.

Anche l’occupazione giovanile è in aumento, pur rimanendo a livelli inferiori rispetto alla crisi del 2008, sia per quanto riguarda il tasso che, soprattutto, per quanto riguarda il numero assoluto che è cresciuto non poco nell’ultimo anno.
A questo proposito, il dato dei Neet resta molto elevato se comparato agli altri paesi europei, ma è in costante calo (salvo la parentesi pandemica) dal 2014 e siamo lontani dalla cifra dei 3 milioni di Neet che pure risuona quotidianamente nel dibattito pubblico.

Contratti e orari

Interessante è anche notare la composizione dei nuovi occupati per tipologia contrattuale, con una crescita significativa, fino a toccare anch’essi un record, degli occupati a tempo indeterminato, mentre quelli a termine restano sostanzialmente stabili.
Qui le spiegazioni sono più complesse da individuare, ma è probabile che le imprese siano più portate a stabilizzare le persone al termine dei contratti temporanei, o anche prima del loro termine, considerata la scarsità di competenze in un mercato del lavoro che si sta sempre di più restringendo.
Questa tesi sembra confermata dai dati INPS sulle trasformazioni di contratti da tempo determinato a tempo indeterminato che nel 2022 sono cresciuti di oltre il 40 per cento rispetto all’anno precedente e che stanno ulteriormente crescendo nel 2023.

Si può azzardare quindi l’ipotesi che per diversi profili, quelli più complessi da reperire, vi sia una crescita di potere contrattuale derivante dalla scarsità, così che le imprese hanno meno possibilità di fondare le loro strategie occupazionali su un esercito di riserva che consente di reiterare contratti temporanei ma le obbliga a non lasciarsi sfuggire i profili già inseriti, pena costi di transazione elevati per la ricerca (il cui esito positivo è tutt’altro che scontato) di sostituti.

C’è poi il tema, non banale, delle ore lavorate che molto incidono sulla quota di lavoro povero nel nostro paese. Se numero di occupati a tempo indeterminato, e che quindi non hanno buchi lavorativi nel corso dell’anno, è in crescita, quello dei part time cresce meno ma permane la quota più alta in Europa (dopo la Romania) di lavoratori part-time involontari, pari al 58 per cento. Questo dato, sebbene sia in calo da qualche anno, evidenzia quanto sia ancora ampio il tema della sotto-occupazione nel Paese, con ben 2 milioni di occupati che lavorano a tempo parziale pur essendo disponibili al lavoro full time.

Quale lavoro? 

Ma quale lavoro si sta creando in Italia? Si tratta di una domanda che in molti oggi si pongono, soprattutto confrontando i dati del PIL con quelli dell’occupazione, che sembrano discordanti. E la discordanza potrebbe apparire ancor maggiore se si analizza il cambiamento dell’occupazione dal punto di vista delle professioni.

Tra il secondo trimestre 2022 e il secondo trimestre 2023, infatti, sono aumentati unicamente gli occupati nelle categorie professionali “qualificate e tecniche”, in particolare le professioni tecniche e quelle intellettuali. Gli impiegati e addetti al commercio e nei servizi sono rimasti stabili mentre operai, conduttori di impianti e personale non qualificato è diminuito. Si tratta quindi, probabilmente, proprio di quelle figure più difficili da reperire e che quindi, come detto, le imprese tendono a confermare per trattenerle.

In questo scenario il tasso di posti vacanti è comunque in aumento e cresce sia nei servizi che nell’industria, a conferma della difficoltà delle imprese di far fronte a tutta la domanda di lavoro esistente. Questo consente di fare qualche riflessione alla luce del quadro dipinto finora. La popolazione in età da lavoro in Italia si sta parallelamente riducendo e invecchiando, già oggi abbiamo un numero di persone molto inferiore rispetto a dieci anni fa e con una età media maggiore, concentrata quindi soprattutto nella quota degli over 45.
Questo fa sì che le imprese fatichino a trovare tutte le persone di cui hanno bisogno, essendo la domanda in aumento (e qui andrebbe capito perché) e l’offerta in contrazione, e soprattutto fa sì che questo sia ancora più difficile tra i giovani, coorte anagrafica in grandissima contrazione. Ciò sta portando, insieme alle conseguenze delle riforme pensionistiche degli ultimi anni, ad un assorbimento nel mercato del lavoro di quelle tipologie di persone che storicamente ne erano escluse: giovani, donne e over 50.
Ma anche questo pare non bastare e allo stesso tempo possiamo ipotizzare come non sia per forza efficiente. Se infatti le imprese si trovano costrette ad assumere e mantenere persone che non hanno le competenze necessarie (e i dati sulle competenze in Italia sappiamo essere critici) inevitabilmente ne pagheranno le conseguenze in termini di produttività.

Non possiamo solo essere contenti dell’andamento dell’occupazione, e neanche accontentarci che (almeno sulla carta) sembri essere occupazione di buon livello, perché il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro è presente anche quando avviene una assunzione, se questa è fatta in mancanza di alternative.

Non dobbiamo quindi lasciare sullo sfondo la necessità di una crescita non solo occupazionale ma anche di competenze e profili professionali, questo sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. Una parte importante della partita dei salari passa anche da qui.

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