La riforma delle regole del Patto di stabilità licenziata dall’Ecofin dieci giorni fa non raggiunge gli obiettivi che la Commissione si era data avviando, nel dicembre 2017, un percorso di riforma con una proposta innovativa poi precisata, dopo lungo dibattito, nel novembre 2022. Si può ben dire che si tratta di un’occasione perduta. La riforma doveva servire ad eliminare i difetti delle vecchie regole, costruite assumendo che il ruolo principale della politica fiscale fosse garantire la stabilità finanziaria tenendo sotto controllo il debito pubblico. La scarsa considerazione per l’efficacia della politica fiscale come strumento di stabilizzazione del ciclo economico e di stimolo alla crescita portò a un insieme di regole fiscali potenzialmente pro-cicliche (incapaci di contrastare le fasi, più o meno profonde, di recessione) e, per di più, molto complesse.

Gli obiettivi della riforma

La proposta di riforma della Commissione aveva essenzialmente due obiettivi. Il primo era appunto, la semplificazione: abbandonare l’armamentario di regole molteplici, basate in larga parte su variabili non osservabili (prodotto potenziale e output gap) e calate dall’alto. Il secondo obiettivo, connesso al primo, era adattare le regole alle condizioni locali, passando a un sistema di piani di rientro a medio termine condivisi con i singoli paesi, rafforzando così la titolarità nazionale, premessa necessaria affinché le regole siano poi rispettate. L’unica regola numerica prevista era quella della spesa primaria netta (un indicatore del saldo primario depurato delle voci che risentono del ciclo), utilizzata per verificare annualmente il rispetto dei piani. Nel progetto approvato dall’Ecofin restano i piani a medio termine e la regola sulla spesa primaria netta ma vengono reintrodotte una serie di regole numeriche che di fatto ci riportano alla logica del sistema precedente, realizzando un ibrido sul cui funzionamento è lecito nutrire dubbi.

A costo di annoiare chi legge è necessario andare un po’ nel dettaglio. Per cominciare, i piani a medio termine devono garantire che alla fine del periodo (4 anni estendibili a 7 se il paese si impegna a realizzare un piano di investimenti e riforme) il disavanzo sia inferiore al 3 per cento e che il rapporto tra debito pubblico e PIL si collochi plausibilmente su un sentiero di diminuzione anche se dovessero verificarsi scenari avversi. Questa formulazione un po’ involuta sta ad indicare che nelle valutazioni ci si baserà sull’analisi di sostenibilità del debito (Dsa), una metodologia probabilistica che valuta il rischio di insostenibilità sulla base di un complesso di ipotesi e di stress test. Tutto ciò riprende la proposta della Commissione del novembre 2022. In quell’occasione si osservò, commentando quella proposta, il rischio di un eccessivo affidamento sulla Dsa. Limiti peraltro riconosciuti nel testo odierno che prevede la formazione di un gruppo di lavoro per raffinare la metodologia e consente ai paesi di discostarsi dalla Commissione riguardo alle ipotesi sul prodotto potenziale

A chi ha seguito la materia, verrà in mente l’output gap working group, per anni impegnato a risolvere questioni esoteriche con conseguenze tuttavia molto concrete sulle regole. Il rischio segnalato era che, liberatisi finalmente di output gap e saldi strutturali, la Dsa diventasse la nuova “scatola nera” del sistema di regole. Nonostante questo limite, la proposta della Commissione di fine 2022 rappresentava comunque un progresso importante.

Salvaguardie e vecchie regole

Al disegno di quella proposta ora si sovrappongono, nella versione approvata dall’Ecofin, due “salvaguardie” che devono essere rispettate dai piani a medio termine (che già devono mettere il debito su uno stabile sentiero di diminuzione). La prima è la “salvaguardia della sostenibilità del debito”. Per i paesi con debito superiore al 90 per cento del PIL (Belgio, Francia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) l’ammontare medio annuo di riduzione dovrà essere almeno dell’1 per cento. In altre parole almeno di quattro punti nell’arco del piano a quattro anni. Per quelli con debito superiore al 60 per cento ma inferiore al 90 per cento (sette paesi tra i quali la Germania) la diminuzione minima annua si dimezza allo 0,5 per cento del PIL. Dal punto di vista di chi ha proposto questa salvaguardia, è bene non fidarsi troppo della DSA e dell’interazione paesi-Commissione e imporre comunque una regola minima.

E’ un ritorno al vecchio sistema, sebbene attenuato. Per dare un’idea, la regola attuale sul debito per l’Italia (mai applicata) richiederebbe una riduzione del rapporto di circa l’1,6 per cento del PIL l’anno. La seconda è la “salvaguardia di resilienza del disavanzo”: il saldo primario strutturale (il disavanzo al netto degli interessi corretto per il ciclo sulla base dell’output gap) dovrà migliorare dello 0,4 per cento l’anno, ridotto allo 0,25 per cento se l’orizzonte del piano è esteso a 7 anni. Questo sforzo dovrà continuare, eventualmente nei piani successivi, finché il rapporto tra disavanzo e PIL (sempre in termini strutturali) non raggiunga l’1,5 per cento. Anche in questo caso c’è la riemersione delle vecchie regole, in forma più blanda. Il disavanzo strutturale dell’1,5 per cento presumibilmente è la nuova versione del vecchio obiettivo di medio termine (Omt), il saldo di bilancio in termini strutturali che avrebbe messo al riparo da disavanzi eccessivi (ovvero superiori al 3 per cento nelle fasi negative del ciclo). Per l’Italia l’Omt era un avanzo strutturale dello 0,5per cento.

Insomma, partiti con l’intento di semplificare l’insieme di regole, eliminando la scatola nera delle variabili non osservabili, si finisce con il mantenere la prima scatola e aggiungerne una seconda, la Dsa. Dal punto di vista pratico è difficile prevedere come funzionerà il nuovo sistema. Dipenderà dalla forza, in termini di intensità del percorso di aggiustamento della finanza pubblica, delle prescrizioni della Dsa relativamente a quanto richiesto dalle clausole di salvaguardia Ci potremo ritrovare in una situazione in cui tutta la costruzione dei piani a medio termine diventa superflua.

Discrezionalità politica

Ma di tutto ciò per il momento non dobbiamo preoccuparci. Il nuovo sistema si applicherà a paesi come Francia e Italia solo quando usciranno, presumibilmente nel giro di tre o quattro anni, dalla procedura per disavanzo eccessivo alla quale saranno sottoposti dal 2025 per violazione della regola del 3 per cento. L’aggiustamento annuo previsto dalla procedura non è cambiato: un miglioramento del disavanzo strutturale dello 0,5 per cento l’anno. Tuttavia, la novità è un periodo transitorio 2025-27 nel quale lo sforzo annuo richiesto sarà minore (non si sa di quanto) per tener conto dell’effetto dell’aumento dei tassi di interesse sulla spesa per il servizio del debito. Sembra che questa disposizione sia parte essenziale del compromesso tra paesi che ha portato al testo approvato. La prossima manovra in Francia e Italia potrà essere meno pesante. Uno scambio non lungimirante.

Tirando le conclusioni, alla fine ci ritroviamo con un sistema che non corregge i difetti di quello vecchio, incluso quello della potenziale pro-ciclicità delle regole. Ciò che è andato in onda in questi mesi a Bruxelles è stato uno scontro tra due visioni sullo spazio che un certo grado di discrezionalità politica può avere nel disegno della politica fiscale.

L’ideale della visione nordica è una politica fiscale condotta da un pilota automatico (regole e nessuna discrezionalità), il paradigma che la proposta della Commissione sembrava voler superare. Tutti i paesi nei prossimi anni dovranno muoversi verso un debito al 60 per cento del PIL, quando a fine 2022 il rapporto era per il complesso dell’euro zona al 92,5 per cento, e verso un disavanzo strutturale dell’1,5 per cento. Non si capisce come sarà così possibile soddisfare le esigenze dello sviluppo sostenibile, ripetute più volte come in una litania nei documenti approvati: transizione verde e digitale, resilienza sociale e riduzione della povertà, difesa, per non parlare dell’invecchiamento della popolazione.

La risposta ovvia sarebbe: affidando buona parte di questi compiti a un bilancio comunitario potenziato. Ma anche su questo si scontrano visioni distanti.

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