Il tema del lavoro povero è, per varie ragioni, divisivo. Una di esse può essere il diverso modo di concepirlo, che si riflette anche su come viene misurato. Le concezioni rilevanti sono due.

La prima adotta la prospettiva “familiare” che è alla base dell’indicatore europeo della in-work poverty. Secondo tale prospettiva è povero il lavoratore (o la lavoratrice) che vive in un nucleo familiare il cui reddito annuo complessivo non raggiunge la soglia della povertà. Dunque, la retribuzione del lavoratore non ha di per sé rilevanza: potrebbe essere “da fame” ma, se il reddito degli altri componenti del nucleo familiare fosse adeguato, il lavoratore non sarebbe considerato povero.

La seconda concezione fa, invece, riferimento alla retribuzione del lavoratore, adottando una prospettiva individuale che, in effetti, sembra quella più idonea a rappresentare la condizione di working poor, ovvero di una persona che, sulla base del solo proprio reddito da lavoro (e indipendentemente da altri redditi propri o dei familiari), non riuscirebbe a oltrepassare la soglia di povertà.

Si può, quindi, dire che la concezione “familiare” si basa sull’idea che ciò che conta è la possibilità di condurre una vita “dignitosa”, accedendo a adeguati consumi, mentre per la concezione “individuale” rileva anche che il lavoro sia, nella sostanza, “dignitoso”, tenendo presente che a retribuzioni bassissime difficilmente corrispondono occupazioni che, sotto altri aspetti, possono considerarsi rispettose della dignità della persona.

Come si è detto, la condizione di lavoratore povero secondo la concezione “familiare” dipende anche dai redditi non da lavoro (in primis da trasferimento) e dei salari degli altri componenti il nucleo e, in particolare, da quanti di essi lavorano (work intensity). Dunque, se la partecipazione lavorativa delle donne appartenenti ai nuclei meno abbienti è limitata – come avviene nel nostro paese – il lavoro povero, a parità di altre condizioni, sarà più diffuso tra gli uomini (in quanto unici percettori di reddito nel nucleo familiare).

D’altro canto, se quella partecipazione cresce – e molte politiche degli ultimi decenni, anche recenti, si sono poste questo obiettivo, senza però assicurarsi che i contratti garantissero la dignità del lavoro – il lavoro povero potrebbe diminuire anche se fosse bassissima la retribuzione di chi già lavorava o quella dei neo occupati. Guardare alla sola dimensione familiare per leggere il fenomeno del lavoro povero genera, peraltro, esiti paradossali: poiché le donne occupate spesso vivono con uomini anch’essi occupati, mentre è tutt’ora molto alta la quota di uomini occupati che convivono con donne non occupate, la percentuale di donne in-work poor risulta ampiamente inferiore a quella degli uomini (9,3 per cento contro 13,2 per cento nel 2022, in Italia); un esito in apparente contraddizione con l’accertato divario salariale a danno delle donne.

Queste considerazioni, a noi pare, spingono a considerare preferibile la concezione “individuale” del lavoro povero quando l’attenzione primaria viene posta su come migliorare il tenore di vita di chi lavora; ma ancora più di esse rileva l’importanza che attribuiamo all’idea che il lavoro debba essere dignitoso (e non soltanto in termini salariali): quando non lo è, si è poveri, o, per essere più chiari, si subisce una condizione di deprivazione materiale e sociale che si aggrava se le esigenze di una vita dignitosa entrano in conflitto con gli orari di lavoro o i tempi necessari a raggiungere il posto di lavoro. Tutto ciò non può essere annullato dal fatto che si vive in una famiglia che mette insieme redditi di livello decente.

A nostro avviso contrastare il lavoro povero richiede prioritariamente misure che elevino la retribuzione di chi occupa i gradini più bassi nella scala delle retribuzioni. Ciò può essere fatto con interventi di natura redistributiva, cioè di integrazione dei redditi guadagnati nei mercati (ad esempio, attraverso i cosiddetti in-work benefits, presenti in diversi paesi europei) o di riduzione del carico fiscale su chi guadagna di meno (ad esempio con le varie forme di decontribuzione previste nel nostro paese).

Ma introdurre sgravi contributivi o sussidi pubblici a integrazione del reddito da lavoro può essere poco efficace, soprattutto nel più lungo periodo se, data la debolezza contrattuale dei lavoratori, quei sussidi si traducono in una riduzione dei salari lordi pagati da almeno alcune delle imprese, che così ne diventano le vere beneficiarie.

Politiche predistributive

Ma non si può fare ricorso solo a misure di natura redistributiva. È decisamente più efficace, e anche giusto, combattere il lavoro povero creando le condizioni affinché i redditi guadagnati nei mercati siano più elevati. In breve, ricorrendo a quelle che si chiamano politiche predistributive e nelle quali rientrano il salario orario minimo, il rafforzamento del potere sindacale e la lotta ai contratti pirata, la regolamentazione più stringente dei contratti atipici e del part-time involontario, oltre che, ovviamente, efficaci politiche macroeconomiche e politiche industriali che incentivino una domanda di lavoro di qualità e sostengano la crescita della produttività. Peraltro, sostenere quest’ultima, ancorché desiderabile sotto molti aspetti, non costituisce garanzia che i salari, specie i più bassi, cresceranno.

Questa affermazione poggia sulla pluriennale esperienza di aumenti della produttività, anche se limitatissimi, che non si sono tradotti in aumenti salariali. Al contrario, creare posti di lavoro più dignitosi può essere una mossa favorevole alla produttività per la risposta positiva che possono dare i lavoratori e che risulta verificata in numerosi studi empirici e comportamentali. In generale, salari più alti possono incentivare le imprese a investire in innovazioni di prodotto e di processo, così favorendo un ulteriore aumento della produttività.

In conclusione, il lavoro poco dignitoso andrebbe considerato povero di per sé e occorrerebbe adottare tutte le misure che siano in grado di contrastarlo, evitando di tranquillizzarsi con il riferimento esclusivo al reddito familiare (per quanto fondamentale) e magari imputando ai poveri anche la responsabilità di aver scelto un nucleo familiare in cui è bassa la work intensity. Per eliminare o almeno contrastare il lavoro povero occorre che i redditi da lavoro raggiungano, tutti, livelli dignitosi.

Questa è la risposta al lavoro povero opportunamente inteso, e lo è anche perché le basse retribuzioni limitano fortemente la possibilità di vivere la vita “decente” che si vorrebbe e che non è tale se manca la possibilità di scegliere se essere single o se avere figli (a proposito di denatalità).

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