Dopo la BCE la settimana scorsa, nei giorni scorsi anche la Bank of England e la Federal Reserve americana hanno mantenuto i tassi di interesse costanti. Così facendo, hanno interrotto un aumento iniziato nella prima metà del 2022 che aveva portato a livelli mai visti in decenni (per la BCE siamo ai massimi dalla data della sua creazione, nel 1999). Le tre banche hanno comunicato con molta cautela, non escludendo che si tratti solo di una pausa e che a breve ci sia un altro rialzo. Non è una questione particolarmente rilevante, tuttavia: che ci sia o meno un altro rialzo, il la fase restrittiva è comunque di fatto arrivata al suo termine e si apre una nuova fase piena di incognite.

La dinamica dell’inflazione è ormai consolidata al ribasso da quasi un anno (il picco è stato nell’ottobre del 2022). Le stime preliminari di Eurostat ci dicono che l’inflazione dell’eurozona in ottobre dovrebbe attestarsi al 2,9 per cento, in calo rispetto al 4,3 per cento di settembre. Per gli Stati Uniti le stime di ottobre non sono ancora disponibili, ma i dati di settembre (3,7 per cento) sono in linea con quelli dell’eurozona. L’inflazione di fondo, depurata dai prezzi dell’energia e dei beni alimentari, segue la stessa tendenza anche se più lentamente.

Perché le banche centrali si sono fermate?

Tuttavia, l’inflazione non è ancora tornata all’obiettivo del 2 per cento che le banche centrali si sono date e che continuano a dichiarare di voler raggiungere nel minor tempo possibile. Perché, allora, si sta chiudendo la fase restrittiva? Ci sono due spiegazioni possibili. La prima è che le banche centrali considerino di fatto la missione compiuta. La politica monetaria ha notoriamente dei ritardi di trasmissione (ne abbiamo parlato anche nel Diario Europeo), e occorre più di un anno prima che gli effetti di un aumento dei tassi si riflettano sui prezzi comprimendo consumi e investimenti. Per cui i rialzi iniziati nella primavera 2022 continueranno ad esercitare una pressione al ribasso sull’inflazione anche nei prossimi mesi. Se a questo si aggiunge il venir meno dei fattori strutturali che hanno dato inizio al fenomeno inflazionistico nel 2021, non è irragionevole prevedere che i prezzi torneranno verso il 2 per cento senza ulteriori sforzi. Ma una pausa nel rialzo potrebbe essere giustificata anche se le banche centrali non considerassero la missione compiuta. Più l’inflazione cala, più è difficile farla calare ulteriormente. Infatti, è molto più difficile passare dal 3 per cento al 2 per cento che dal 10 per cento al 3 per cento, soprattutto se la dinamica dell’inflazione dipende principalmente da fattori sui quali la politica monetaria ha un impatto limitato, come i prezzi dell’energia. Lo sforzo di compressione della domanda necessario per tornare al 2 per cento potrebbe dunque rivelarsi troppo costoso per l’economia.

Tutti i motori della crescita girano al minimo

In questo momento di transizione, in cui l’inflazione cala ma la politica monetaria è ancora restrittiva e l’economia non si è ancora adattata al contesto di prezzi più elevati, i rischi di un collasso della domanda sono massimi. Ricordiamo che la domanda domestica di beni e servizi può venire dalle imprese (che comprano beni di investimento, macchinari, etc.), dalle famiglie (i consumi, di beni durevoli e non), o dalle amministrazioni pubbliche (la spesa pubblica, per consumi o per investimento). Nei paesi europei tutte queste componenti al momento soffrono. L’aumento dei tassi di interesse ha progressivamente reso difficile (e oneroso) il finanziamento della spesa per investimenti e per il consumo dei beni durevoli (il credito al consumo). Anche per i governi, che devono gestire l’eredità del debito Covid, finanziarsi diventa sempre più costoso restringendone lo spazio di manovra. Se a questo si aggiunge la fretta che molti, soprattutto nei paesi detti frugali, hanno di voltare la pagina degli scorsi anni e di tornare alla frugalità delle finanze pubbliche, è chiaro che il sostegno all’economia nel futuro prossimo non verrà dalla politica di bilancio. Infine, ma non da ultimo, le famiglie che avevano inizialmente fatto fronte alla perdita del potere d’acquisto dei salari utilizzando i risparmi accumulati, oggi si trovano a dover ridurre la spesa per consumi. Certo, i salari in questo momento tendono a crescere più dei prezzi. Ma, assumendo che questo continui, occorreranno ancora diversi trimestri prima che il recupero sia completo e che i salari reali tornino al livello originario. Insomma, sarà difficile che nei prossimi mesi l’economia possa generare sufficiente domanda da impedire un rallentamento dell’economia. Anche il canale delle esportazioni, su cui l’Europa ha contato ad esempio negli anni difficili successivi alla crisi greca, oggi non sembra garantire certezze in un mondo sempre più instabile.

È interessante notare che la Fed americana si trova a fronteggiare un quadro ancora più complicato, perché i segnali dal lato dell’economia reale sono contraddittori. L’occupazione cresce, il PIL rimbalza, ma il ritorno dei lavoratori precedentemente scoraggiati sul mercato del lavoro fa anche aumentare il tasso di disoccupazione. Allo stesso tempo, le condizioni sui mercati finanziari sono restrittive come non erano da anni, e molti analisti non escludono un crollo di consumi e investimenti in un futuro prossimo.

Che succederà ora?

È quindi un momento molto difficile per le banche centrali, che in parte si sono messe da sole nell’angolo proclamando ai quattro venti che la battaglia contro l’inflazione sarebbe stata condotta fino in fondo e senza esitazioni. Come faranno ad ingranare la retromarcia se l’economia si avvita realmente in una contrazione economica con l’inflazione che rimane sopra ai loro obiettivi? Per chiunque non fosse un banchiere centrale la risposta ovvia sarebbe di non esitare a ridurre i tassi, ove questo fosse necessario a sostenere una crescita in difficoltà. Ma i banchieri centrali sono schiavi (non necessariamente a torto) della loro credibilità, e molto probabilmente non lo faranno. È probabile che, a meno di altri shock devastanti (che purtroppo negli ultimi anni sembrano diventati la norma), i tassi di interesse nei prossimi mesi non calino. Un’opzione per cambiare rotta potrebbe essere quello di riconsiderare i programmi di acquisti di titoli, le politiche dette non convenzionali utilizzate negli scorsi anni. Non tanto annunciando nuovi programmi (ancora una volta la credibilità lo rende improbabile) ma rimodulando quelli esistenti in modo da tenere bassi i tassi di interesse sul debito pubblico e almeno consentire ai governi di combattere il rallentamento della crescita.

© Riproduzione riservata