Se si sapesse molto poco della politica italiana e si ragionasse con gli schemi di quella europea e internazionale, si potrebbe dire che l’ascesa di Meloni e la morte di Berlusconi rappresentano la fine in Italia del centrodestra liberale di matrice cristiana, trasformatosi in destra sovranista con una mentalità economica più statalista. Ma guardando alle mosse in economia dei quattro governi Berlusconi si capisce subito che non è così.

Fin dalla sua discesa in campo, Berlusconi si è presentato come una persona fortemente attaccata ai valori della libera impresa e della libera iniziativa, ma di fatto ha utilizzato la sua influenza politica per ridurre la concorrenza. Eppure il liberalismo aveva fatto la sua fortuna: l’apertura del mercato televisivo alle imprese private è stato il punto di partenza del suo impero mediatico. Anche quando occorreva sfruttare le proprie conoscenze politiche, il Berlusconi imprenditore si era battuto per una maggiore liberalizzazione. Per esempio nel 1984, quando il Governo Craxi regolarizzò con decreto la posizione delle reti Mediaset, che rischiavano di essere oscurate per il divieto alle emittenti private di trasmettere a livello nazionale.

Quando Berlusconi è arrivato al governo, però, si è dimenticato dei principi liberali. All’aumento della concorrenza verso cui si stavano muovendo tutti gli altri paesi europei, ha preferito i cartelli di taxi, stabilimenti balneari e altri. Il suo governo è stato il primo a non rispettare la direttiva Bolkestein ed è servito un governo di centrosinistra (con il ministro Pier Luigi Bersani) per portare avanti le poche liberalizzazioni che si sono realizzate in Italia.

Taglio delle tasse

Anche negli aspetti più controversi, ma pure i più richiesti dall’elettorato liberale, come la riduzione delle tasse e il taglio della spesa pubblica, Berlusconi non ha mai portato a termine grandi traguardi. Lo dimostra l’andamento della pressione fiscale durante i suoi governi, ossia il totale delle tasse raccolte dallo stato in percentuale al Pil.

Nel grafico si vede come questo dato sia rimasto stabile o in discesa durante i quattro governi Berlusconi, ma non bisogna lasciarsi ingannare. Innanzitutto, le riduzioni sono state molto contenute (il massimo è stata una discesa di 1 punto percentuale durante i primi anni 2000, comunque recuperata con un aumento nell’ultimo anno di governo).

Inoltre, le riduzioni della pressione fiscale sono spesso state fatte in maniera temporanea, raccogliendo consensi elettorali e poi lasciando il danno da riparare ai governi venuti dopo. Non è un caso che il peso delle tasse sul Pil aumenti dopo la fine di ogni esecutivo guidato da Berlusconi, a volte per limitare danni relativamente piccoli (come nel 2006), altre per evitare un disastro, come avvenuto dal 2011 in poi con il governo Monti.

Un vero liberale sosterrebbe che per ridurre le tasse occorre “affamare la bestia”, ossia ridurre la spesa pubblica per garantire equilibrio nei conti. Berlusconi si limitava, se tutto andava bene, a mantenere la spesa sugli stessi livelli, concedendo allo stesso tempo tagli delle tasse. Se andava male, invece, aumentava anche la spesa pubblica.

Il debito

È infatti con Berlusconi il debito non è mai calato. Un esempio di questo modo di agire è l’aumento delle pensioni minime a mille euro (un milione di lire all’epoca della promessa elettorale), una misura che ha fatto poco per ridurre la povertà tra gli anziani e nulla per favorire la crescita, ma il cui peso verrà portato sulle spalle delle giovani generazioni. Garantire ad alcuni condizioni privilegiate a spese di altri, che dovranno impegnarsi lo stesso o di più senza ottenere quel privilegio: una soluzione che farebbe rabbrividire qualsiasi uomo o donna di sinistra, ma anche chi si definisce liberale.

Ma allora perché Berlusconi ha continuato a insistere sulla storia del liberalismo? Sicuramente per una questione di posizionamento, per esempio all’interno del Partito popolare europeo. C’è poi il gioco delle parti tra comunisti da una parte e liberali dall’altra, che ha sempre ripagato politicamente. E poi c’è una verità incontestabile: Berlusconi ha aiutato davvero le persone a fare impresa.

L’evasione fiscale

Il problema è che non lo ha fatto garantendo uguali condizioni per tutti, un accesso al mercato semplice o una burocrazia snella, ma semplicemente rendendo conveniente l’attività da autonomo con l’evasione. Se si guarda alle misure portate avanti da Berlusconi, infatti, non ci sono riduzioni delle tasse rivoluzionarie. La cosiddetta flat tax per le partite Iva, a confronto, sembra il taglio di Ronald Reagan negli anni Ottanta. Ridurre le tasse avrebbe significato tagliare anche la spesa pubblica, con importanti conseguenze sul consenso elettorale. Meglio piuttosto rinunciare a quelle che si potrebbero raccogliere con la normativa vigente, permettendo ad autonomi e piccoli imprenditori di prosperare, mentre il carico fiscale effettivo veniva trasferito sempre più su dipendenti e pensionati.

Sarebbe sbagliato attribuire al solo Berlusconi una pratica che è stata messa in atto per decenni all’interno dell’economia italiana, ma la colpa dell’ex premier è stata quella di non aver sfruttato appieno le nuove tecnologie che avrebbero permesso di ridurre davvero l’evasione. Prime fra tutte, le carte per i pagamenti elettronici, che hanno aumentato la tracciabilità delle transazioni. Anziché puntare su una modernizzazione dell’economia, Berlusconi ha preferito incentivare l’evasione con condoni e rottamazioni, forse per far stare buoni i cittadini di fronte alla grande evasione operata dalle sue stesse aziende. Così, mentre la competizione aumentava la dimensione media delle imprese in Europa, in Italia conveniva rimanere piccoli e coccolati da una facile evasione.

Insomma, Berlusconi piaceva perché gli italiani si riconoscevano in lui. Il problema è che gli italiani non sono liberali, come dimostrano vent’anni al centro della scena politica per l’ex presidente del Consiglio.

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