Giovedì prossimo la Bce deciderà se proseguire nell’aumento dei tassi in un clima di grande incertezza, con l’inflazione che continua a calare, anche se a ritmi secondo molti insufficienti, e nuvole sempre più scure che incombono sulla crescita europea.

Le politiche monetarie restrittive iniziate nella primavera-estate 2022 iniziano lentamente a mordere in Europa come negli Stati Uniti, con il credito in caduta libera. In questi due anni di alta inflazione il Diario europeo ha più volte argomentato che altre politiche sarebbero state auspicabili e che la clava della politica monetaria avrebbe causato un inutile rallentamento dell’economia.

Comunque sia, la fiammata inflazionistica sarà con tutta probabilità un ricordo in un futuro prossimo. È quindi ora di chiedersi a cosa assomiglierà la politica economica nei prossimi anni, quali saranno le lezioni di tre lustri di crisi a ripetizione.

Le lezioni delle crisi

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Per anni, prima della crisi del 2007, si è in buona sostanza seguita la regola, che gli studenti universitari studiano nei corsi introduttivi di macroeconomia, secondo la quale si deve associare ad ogni obiettivo di politica economica uno strumento. La dottrina che dominava prima della crisi affidava alle banche centrali il compito di contrastare l’inflazione. Alla stabilizzazione del ciclo avrebbero dovuto pensare i mercati, considerati efficienti. Lo strumento della politica di bilancio, lasciato senza un obiettivo preciso, era in qualche modo accantonato.

La prima lezione è che dopo il 2007 questa gerarchia degli strumenti si è invertita. Con i tassi scesi rapidamente a zero, le banche centrali si sono trovate in condizioni di impotenza (la trappola della liquidità) e la politica di bilancio ha dovuto prendere il testimone, anche per cercare di far risalire l’inflazione. È tornato quindi in auge il policy mix, l’uso coordinato di strumenti diversi per affrontare la crisi: mentre la politica di bilancio si occupava di rilanciare l’economia, la politica monetaria apriva un ombrello protettivo e stabilizzava i mercati finanziari con le politiche non convenzionali di acquisto di titoli del debito pubblico.

In Europa, il ritorno della politica di bilancio si è articolato, tra mille resistenze, in tre fasi distinte: la prima, durante la crisi finanziaria globale, ha visto un intervento keynesiano in senso classico, volto a compensare il crollo della domanda privata con politiche espansive di sostegno della domanda.

Dopo la svolta dell’austerità, nel 2010, l’attenzione si è spostata sul bisogno di investimenti pubblici, a lungo sacrificati dai programmi di consolidamento di bilancio. Infine, la pandemia ha evidenziato le carenze di capitale sociale e di beni pubblici (la sanità, ovviamente, ma anche l’istruzione, la protezione sociale, etc.) e riportato al centro della scena la politica industriale, per governare la ricomposizione settoriale dell’economia e le necessarie transizioni digitale ed ecologica.

Sarebbe stato auspicabile che a queste tre fasi ne fosse seguita una quarta, con politiche industriali, fiscali e di bilancio, usate per affrontare i colli di bottiglia lasciati in eredità dalla pandemia, e alimentati dalla turbolenta ripresa del 2021 e dall’invasione dell’Ucraina.

E proprio questa sorta di incompiutezza che costituisce la seconda lezione: il processo di ripensamento della teoria economica innescato dalla crisi del 2007, infatti, sembra oggi tutt’altro che consolidato; la velocità con cui alle prime avvisaglie di inflazione sono state rispolverate le vecchie ricette degli anni Novanta, affidando solo alle banche centrali la lotta contro l’inflazione, mostra che per molti economisti e policy makers quella aperta nel 2007-2008 è solo una parentesi, da chiudere quanto prima.

Non è solo la lotta all’inflazione a mostrare il rischio di un ritorno al passato. Si pensi al dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita, che vede molti economisti premere per una regola di bilancio che riporti rapidamente il debito pubblico verso i livelli degli anni Duemila.

Abbandonare la chimera dell’equilibrio

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Nonostante queste resistenze, tuttavia, sembra evidente che non si possa tornare a un mondo in cui la politica monetaria è l’unico attore in campo. Favorire l’investimento per la transizione energetica, ad esempio, richiederà una molteplicità di strumenti da utilizzare in modo coordinato, dagli incentivi fiscali alla regolamentazione, passando per l’investimento pubblico e le politiche per il credito.

La necessità di agire simultaneamente dal lato dell’offerta, per favorire il cambiamento strutturale, e da quello della domanda, per accompagnare l’emergere di nuovi bisogni, richiederà di far saltare la divisione tradizionale, comoda per i libri di testo ma pericolosa in pratica, tra politiche macroeconomiche e politiche microeconomiche e strutturali.

Allo stesso modo, la distinzione tra politiche per la domanda nel breve periodo e politiche per l’offerta nel lungo periodo (principalmente le riforme strutturali) è anch’essa anacronistica: un flusso di domanda stabile consente alle imprese di programmare investimenti, di finanziare l’innovazione, di contribuire alla costruzione della capacità produttiva e quindi della crescita futura. Specularmente, politiche che agevolino la ricomposizione settoriale dell’offerta consentono, nel breve periodo, di assorbire shock di domanda senza far emergere disoccupazione, risorse inutilizzate e ovviamente inflazione.

Insomma, nel mondo di domani il policy mix non dovrà più essere orientato a lasciar fare ai mercati, a eliminare gli ostacoli al loro funzionamento, a seguire regole rigide. Invece di tendere a fantomatici equilibri ottimali, la politica economica dovrà perseguire una crescita stabile ed equilibrata cercando di ridurre l’incertezza, ostacolo maggiore all’attività privata e all’allungamento dell’orizzonte decisionale tanto delle imprese quanto dei governi.

Per riuscire a cambiare l’approccio alla politica economica. occorrerà lasciarsi definitivamente alle spalle il vecchio paradigma incentrato su mercati che si coordinano autonomamente su equilibri ottimali in favore di una visione dell’economia come processo in mutamento continuo, caratterizzata da ineliminabili disequilibri tra settori e interni ai settori.

Lo scopo della politica economica, secondo tale approccio, deve essere di tenere l’economia all’interno di un corridoio di stabilità, (l’espressione è di uno dei più brillanti e sottovalutati economisti del secolo scorso, Axel Leijonhufvud) che consenta di riassorbire gli squilibri e di favorire i cambiamenti strutturali. Una concezione che sembra molto più adatta della chimerica ricerca di un equilibrio ottimale a far fronte alle sfide di oggi


Questo testo sviluppa una sezione del libro Oltre le banche centrali, pubblicato da Luiss University Press

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