Una corretta valutazione dell’impostazione della legge di Bilancio 2026 non può non fondarsi su un’analisi della razionalità dei vincoli europei. Si ricorderà che queste regole, in vigore dall’aprile 2024, dispongono che Commissione europea, governi e Consiglio europeo concordino piani di aggiustamento strutturale della durata di 4-5 anni (estendibili a 7 se sono previste riforme coerenti con gli obiettivi Ue).

Oggetto di specifica attenzione è la spesa pubblica netta, che deve essere ridotta per raggiungere i parametri del 3 per cento del rapporto deficit/Pil e del 60 per cento del rapporto debito/Pil. Per i paesi ad alto debito, superiore al 90 per cento del Pil, come l’Italia, si prevede un aggiustamento più rapido dei paesi con debito/Pil più basso, con riduzione del debito nell’ordine dell’1 per cento annuo.

I danni dell’austerità

Può essere utile verificare come l’Italia ha recepito questi vincoli e con quali effetti, chiedendosi, in particolare quali sono stati i danni prodotti dalle misure di austerità. Va preliminarmente sottolineato che il nostro paese è, fra i paesi europei, uno fra quelli che ha dato maggiore impulso alle politiche di austerità per il maggiore intervallo di tempo.

La legge di Bilancio 2026 si muove su questa linea, ovvero su una linea che parte dai primi anni Novanta, quando la spesa pubblica corrente comincia a contrarsi. La spesa complessiva delle amministrazioni pubbliche diminuisce dal 53,2 per cento al 51,4 per cento del Pil nel 1994 e, nel 1995, continua la riduzione dell’incidenza della spesa sul Pil, che raggiunge il 49,2 per cento.

Dal confronto internazionale con i principali paesi Ocse, emerge che, dal 1961 al 1980 (periodo nel quale la spesa pubblica in Italia è stata in continua crescita), lo stato italiano ha impegnato risorse pubbliche in rapporto al Pil sistematicamente inferiori alla media dei paesi industrializzati: a titolo puramente esemplificativo, nel 1980, il rapporto spesa corrente su Pil, in Italia, era pari al 41 per cento a fronte del 41,2 per cento della Germania. Si osservi che gli anni di maggiore aumento della spesa pubblica – in una condizione di forte intervento pubblico in economia mista – coincidono con gli anni di massimo sviluppo della nostra economia.

Effetti perversi

Gli effetti perversi delle politiche di austerità sono stati fondamentalmente due:

1) Come mostrato da un’ampia letteratura scientifica, incluse autorevoli analisi del Fondo monetario internazionale, le politiche di austerità tendono a produrre effetti recessivi e, contrariamente alle finalità perseguite, aumentano, non riducono il rapporto debito pubblico/Pil. Questi effetti perversi sono tanto maggiori quanto più vengono attuate in fasi recessive, dati gli elevati valori dei moltiplicatori fiscali. È proprio a partire dai primi anni Novanta, in concomitanza con l’attuazione di misure “lacrime e sangue”, che l’Italia sperimenta rallentamento della crescita e continuo aumento del debito pubblico. Nella stagione di maggiore accelerazione delle misure di austerità (2011-2013: governo Monti), il rapporto debito pubblico/Pil è aumentato di ben 14 punti percentuali, su fonte Istat e Banca d’Italia.

2) Le misure di austerità producono anche effetti negativi di lungo periodo sulla crescita del Pil e della produttività del lavoro. Si tratta di un effetto meno noto di quello precedente e, tuttavia, di notevole rilevanza. Per comprenderlo, occorre dar conto – sinteticamente e per grandi linee – delle attuali caratteristiche dell’economia italiana, ovvero: a) Una struttura produttiva composta prevalentemente da imprese di piccole dimensioni e poco innovative. Il calo della produzione industriale coincide, peraltro, con un aumento dell’incidenza dei servizi e del terziario a basso valore aggiunto. Si consideri, a riguardo, la notevole crescita dell’incidenza del turismo soprattutto nell’economia delle regioni meridionali. È ben noto, in letteratura, che la crescita della produttività e del Pil è strettamente correlata con la presenza di un’ampia base industriale; b) una specializzazione produttiva con elevata incidenza – peraltro in crescita, soprattutto nel Mezzogiorno – di settori a basso valore aggiunto (si pensi al turismo).

La caduta della domanda interna rallenta la crescita della produttività del lavoro del Pil, a ragione di quello che viene definito “l’effetto Smith”, ovvero una condizione per la quale al crescere della dimensione del mercato aumenta l’incentivo per le imprese a innovare e cresce, per conseguenza, la produttività del lavoro. Questo effetto si produce soprattutto per le imprese del Mezzogiorno, a ragione della loro minore propensione a esportare.

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