La destra ha sempre stretto un patto di tolleranza sull’evasione fiscale diffusa nel paese. L’innalzamento del tetto al contante da introdurre subito, già con la prima legge di bilancio è solo uno, il più evidente, degli strumenti di questo patto, ma i messaggi lanciati in questi giorni dal governo Meloni appena insediato rivelano una strategia complessiva contraria al piano anti evasione elaborato finora e concordato con l’Europa.

La strategia complessiva

Per rivendicare la scelta sui contanti, Meloni ha citato paesi europei in cui il tetto al contante non c’è. Inoltre ci sono paesi ad alta evasione che hanno un tetto al contante molto basso come la Grecia, ma proprio uno studio pubblicato sullo European Journal of political economy sui dati dei pagamenti di paesi come la Grecia conclude che l’uso dei pagamenti elettronici riduce l’evasione dell’Iva, cioè la tassa più evasa anche in Italia.

Il tetto all’uso dei contanti  è importante anche per la lotta al riciclaggio di denaro. Secondo la più recente analisi realizzata provincia per provincia e comune per comune dall’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia, cioè l’ufficio che si occupa di contrasto al riciclaggio di denaro, i versamenti elettronici per numero di operazioni bancarie realizzate sono correlate negativamente con il riciclaggio di denaro, e sono invece correlate positivamente la quota di imprese attive nei settori delle costruzioni, del commercio e della ristorazione, che sono quelli ad alto rischio di evasione fiscale.

Il tetto al contante, insomma non è considerato da nessuno risolutivo, ma rilevante all’interno di una strategia complessiva contro l’evasione. Il ministero dell’Economia ha elaborato un piano anti evasione per rispondere agli obiettivi che ci siamo dati nel Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Il Pnrr deve essere infatti in linea con le raccomandazioni del semestre europeo del 2019 e del 2020: quelle raccomandazioni insistono sulla riduzione dell’evasione dell’Iva, un record tutto italiano, che vale più di 30 miliardi di euro, circa l’1,5 per cento del Pil, praticamente lo stesso ordine di grandezza della crescita media annua della ricchezza italiana degli ultimi vent’anni. Nel 2019 si ricorda che «sono stati innalzati i limiti legali per i pagamenti in contanti, misura che potrebbe scoraggiare l'uso dei pagamenti elettronici, la cui promozione, invece, potrebbe incentivare l'emissione di fatture e scontrini fiscali, migliorando in tal modo l'adempimento degli obblighi tributari».

Un attacco dopo l’altro

C’è una relazione corposa messa a punto dal ministero dell’Economia e delle finanze sulle azioni rivolte a ridurre l’evasione fiscale che è agli atti della Camera. Quel rapporto spiega che l’aumento dei pagamenti elettronici «può effettivamente rappresentare un’utile precondizione per il contrasto all’omessa fatturazione», ma da solo non è sufficiente.

Il governo uscente ha investito sugli incentivi: ha previsto un credito di imposta al 30 per cento per i negozianti che utilizzano il pos e ha collegato le detrazioni Irpef al 19 per cento al fatto che i pagamenti siano fatti con mezzi tracciabili. Solo da quest’ultimo provvedimento per quest’anno dovrebbero entrare nelle casse dello stato 500 milioni di euro in più.

Il meccanismo è quello del contrasto di interessi tra il venditore che potrebbe omettere la fattura e la persona che acquista, ma ci sono molte strategie per aggirarlo: «Se si agisce solo incentivando forme di pagamento elettronico, senza aumentare la probabilità percepita di un controllo per il venditore finale, è quasi sempre possibile che quest’ultimo riduca il prezzo della transazione in contanti». In più per come funziona oggi l’amministrazione finanziaria non sempre l’informazione del pagamento elettronico può essere utilizzata per l’attività di controllo.

La dichiarazione più grave

Ieri in difesa della coalizione di governo il forzista Giorgio Mulé ha detto che aumentare il tetto al contante non è una delle priorità del governo, perché Giorgia Meloni non lo ha citato nel suo discorso programmatico. Ma nel suo discorso programmatico Meloni ha attaccato il pilastro più importante della strategia che è quella dei controlli dell’Agenzia delle entrate. Lo ha fatto dicendo falsità, sostenendo che le valutazioni dell’attività di controllo non si basa sugli importi incassati, ma quello che conta è stato il messaggio politico trasmesso a un’agenzia che dipende dallo stato e che significa dirigere la lotta all’evasione verso i grandi evasori che tendono a eludere e non i piccoli che evadono. 

Tutto questo mentre il governo Draghi ha avviato una ristrutturazione e a un accorpamento di Agenzia delle entrare e della riscossione e stava facendo timidi passi verso un sistema di accertamento basato sull’incrocio di banche dati e uso di intelligenza artificiale.

Più forfait, meno trasparenza

Anche la misura principe del programma fiscale di governo cioè l’estensione del regime forfettario per le partite Iva fino a 100mila euro di reddito lordo va sempre a incidere su quella quota di attività economica da cui proviene la maggiore quota di evasione. La relazione sulla lotta all’evasione fiscale allegata alla Nadef non è stata pubblicata, ma in  quella del 2020 si stima che il 67 per cento dell’evasione sia legata ai mancati introiti su reddito di impresa e di lavoro autonomo.

Prevedendo un’aliquota ridotta per la categoria degli autonomi, il forfait rende norma parte di quei mancati introiti. Siccome si basa sui redditi lordi, le tasse pagate dipendono dal numero di fatture presentate, con l’effetto distorsivo di incentivare a presentarne meno e di distorcere la concorrenza. Ma c’è di più perché il regime forfettario ha anche un’altra caratteristica: elimina per chi vi aderisce l’obbligo di rendicontare le spese deducibili, ne calcola la percentuale in maniera totalmente astratta sulla base dei codici Ateco, cioè della categoria di appartenenza dell’impresa. Un’altra picconata alla trasparenza del sistema fiscale. 

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