A chi le chiedeva se non avesse fatto lo stesso errore che imputava al predecessore Mario Draghi – molte risorse disperse nei rivoli, poche sul taglio al cuneo fiscale – Giorgia Meloni ha risposto convinta di no. Presentando la sua prima legge di Bilancio la premier ha rivendicato coraggio, scelte politiche coerenti, e distanza dall’ex premier tecnico: il taglio alle tasse sul lavoro, ha argomentato, è la seconda voce di spesa in manovra, dopo 21 miliardi su 35 dedicati al caro bollette.

I numeri compongono un’immagine diversa: per il cuneo fiscale sono stanziati poco più di 4 miliardi che servono a prorogare la misura dell’esecutivo precedente, e la aumentano per i redditi più bassi (una decina di euro al mese). Ma al netto del deficit, la legge di Bilancio di miliardi ne ha movimentati altri dieci, su fronti diversi.

Il corpaccione della legge di Bilancio era di fatto già scritto, con un deficit per far fronte all’inflazione destinato soprattutto ad aiutare le imprese per il primo quadrimestre dell’anno. Il resto invece è stato ritoccato fino all’ultimo, da una parte per poter almeno provare a rispondere ai partiti di opposizione della sinistra sull’accantonamento della questione sociale, dei lavoratori, dei poveri, dall’altra per accontentare gli alleati di governo. Con Draghi spesso le due questioni potevano coincidere, ma le spinte a cui rispondere erano le stesse.

Bandiere e ritocchi

In pochi giorni, e soprattutto nelle ultime ore, la legge di Bilancio è stata imbellettata per mostrare più equità sociale – lo stanziamento per la sanità annunciato a due miliardi nella conferenza di ieri per i prossimi due anni – e per fare in modo che tutti nella coalizione avessero bandiere da sventolare.

«Questa è la fine del reddito di cittadinanza», è stato l’annuncio più forte di Meloni, che con FdI aveva fatto della lotta all’assegno per le persone sotto la soglia di povertà una battaglia di partito, cadenzata da marce e flash mob. La premier ha dovuto frenare ma ha ottenuto di poter annunciare l’abolizione dell’assegno della povertà, senza balcone questa volta. FdI porta a casa anche la flat tax incrementale per gli autonomi, messa a punto con il viceministro Maurizio Leo, e la detassazione dei premi di produttività, venduta come la versione della tassa piatta per i dipendenti.

La Lega di Matteo Salvini si è mossa, come con Draghi, con maggiore anticipo. Ha incassato diverse misure dall’estensione del forfait a 85mila euro fino alle misure che portano la firma di Salvini: dalla ricostituzione della società per il ponte sullo stretto all’annuncio di un intervento per bloccare la rivalutazione delle multe, pure non inserito nella legge di Bilancio. La Lega si è dovuta accontentare su Quota 103, ennesima uscita pensionistica temporanea – varrà un anno e solo quest’anno costerà mezzo miliardo quest’anno (3,5 miliardi in tre anni considerando che c’è un tetto alle pensioni più alte) – ma del resto nessuno avrebbe pensato alla possibilità di un vero “stop Fornero”, titolo che viene comunque rivendicato nei comunicati di governo. Forza Italia ha incassato due bandiere all’ultimo: la detassazione per le assunzioni a tempo indeterminato di giovani under 36, seppure calcolata sulla media occupazionale del triennio passato. E soprattutto la rimodulazione della rivalutazione delle pensioni, che arriverà al 120 per cento per le minime  e sarà poi rimodulata al ribasso per quelle più alte, un modo per rivendicare equità sociale, e poco importa se tocca un’altra retromarcia. «Una manovra che concede poco alle piccole questioni ma molto alla visione», ha detto Meloni, ma sembra una definizione da leggere al contrario: poca visione, molte piccole questioni.

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